Tv7, quando la tv disturbava i palazzi e i benpensanti

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Tv7 nasce nel gennaio del 1963 e muore nell’estate del 1971. Nasce quando alla Casa Bianca c’è Kennedy e muore quando c’è Nixon, nasce nell’anno della Pacem in terris e muore nel pieno della guerra in Vietnam, nasce con il primo LP dei Beatles e muore  con il loro ultimo disco, nasce col primo governo di centro sinistra e muore con la strage di piazza Fontana. Non sono coincidenze casuali: Tv7 è stato in pieno un’espressione del suo tempo e questo è il suo merito maggiore. È nato in un’Italia che aveva voglia di cambiare e pensava che fosse possibile farlo ed è morto quando questa speranza è stata soffocata. Ha vissuto in un’epoca in cui tutto veniva messo in discussione – nella politica, nella società, nella cultura, nelle relazioni interpersonali – e di questa tensione al cambiamento si è fatto testimone. Attento, curioso, partecipe. Un ruolo che ha svolto con determinazione, tra mille difficoltà. Non è stata una strada comoda quella che ha dovuto percorrere Tv7 e chi ci lavorava sapeva quanto fosse accidentata.

Fare giornalismo d’’inchiesta in quegli anni non era cosa facile, non lo è nemmeno oggi, ma allora si era ai primi passi. Tv7, comunque, proprio a questo puntava: non nascondere i problemi ma rappresentarli. Andare sul posto, far vedere le cose, far sentire le persone: è l’abc dell’informazione televisiva, ma allora non era scontato, e neppure oggi lo è del tutto. Non voleva far altro Tv7 che usare gli strumenti del mestiere, un obiettivo e un microfono, per raccontare anche le vicende cosiddette “scottanti” su cui il telegiornale non dava né immagini né voci, ma, se andava bene, una “notizia dal vivo”, qualche riga letta dallo speaker. È in quel contesto che va letta la sua storia.

Era stato Enzo Biagi ad aprire la strada nel ’62 con RT, Rotocalco Televisivo, che  dura una sola stagione, ma lascia il segno: inchieste, reportage, un linguaggio diretto e nessun tabù. Nel primo numero un servizio da Corleone: si parla di mafia, per la prima volta in televisione. Nella breve storia di RT ci sono già le avvisaglie dei problemi che avrà Tv7. Biagi era stato chiamato a dirigere il  Telegiornale nel ’61 da  Ettore Bernabei, arrivato appena l’anno prima alla direzione generale della Rai.  Bernabei vuole  modernizzarela Rai, farne una grande impresa culturale. Se chiama un giornalista come Biagi, che si è già fatto notare per il suo anticonformismo, è perché vuole portare aria nuova nel Telegiornale. E Biagi cambia il notiziario, da subito, proprio lo scuote, lo rivolta, già nella forma: manda i giornalisti in campo, e lui stesso va in video. Si fa guidare dai fatti, dalle notizie, e spedisce le troupes sul posto. E, nel giro di pochi mesi, dà vita a un settimanale, appunto RT, che guarda al pubblico, non agli equilibri politici. Bernabei lo asseconda, lo tutela (Biagi glielo ha sempre riconosciuto) finché può, ma le pressioni crescono e Biagi, che già allora non aveva nessuna voglia di rinunciare alla propria autonomia, lasciala Rai.

Chiude RT ma non si spegne l’idea di un magazine, anzi rinasce molto presto. Il quadro politico lo rende possibile. Ed è  Tv7, domenica 20 gennaio 1963. Si annuncia con una sigla che dice tutto del suo progetto di modernità, del suo sguardo anticonvenzionale: grafica d’artista e musica jazz, Pino Pascali e Stan Kenton. Propone quattro, cinque servizi, un quarto d’ora in media ciascuno, sugli argomenti più disparati. Sta sui fatti, sull’attualità, non evita le notizie scomode, le questioni controverse, anzi le privilegia, mette in evidenza i punti di crisi della società, le contraddizioni, le disuguaglianze. Ha uno sguardo aperto sulle novità nella scienza, nella cultura, negli stili di vita, sa vedere quel che succede all’estero, negli Stati Uniti, nel Terzo Mondo, nel blocco sovietico, racconta le lotte per i diritti civili, i movimenti di liberazione,  le dittature, le repressioni, le guerre. Sono gli anni della coesistenza pacifica, del Concilio, della decolonizzazione, della conquista della Luna, del trapianto di cuore, e del maggio ’68, ma anche della guerra  nel Vietnam e in Medio Oriente, della sperequazione tra nord e sud del mondo. Tv7 racconta tutto questo e guarda principalmente alla realtà italiana.

Si indaga a tutto campo sul paese: dall’impatto della siderurgia su Taranto all’inquinamento delle acque e dell’aria in Lombardia, dalla speculazione edilizia alla droga alle carceri. Angelo Campanella varca i cancelli delle fabbriche per rivelare lo stress alla catena di montaggio, Roberto Morrione viaggia nel Mezzogiorno senza lavoro, Brando Giordani incontra le vedove della mafia, Emilio Ravel registra i primi segnali della contestazione studentesca, Emilio Fede scopre la bistecca col doping, Fernando Cancedda punta l’obiettivo sul “mare sporco”, Sergio Zavoli va tra le macerie del terremoto del Belice e nei “giardini di Abele” di Franco Basaglia. Intanto non si perde di vista quel che accade fuori d’Italia, dalle dittature in America Latina al Muro di Berlino, dalle Guardie rosse di Mao ad Al Fatah. Demetrio Volcic racconta la primavera di Praga, Furio Colombo l’America di Martin Luther King. È la scoperta del mondo.

Non tutti i numeri saranno densi e problematici, ci saranno gli alti e i bassi, qualche volta i problemi saranno sfiorati più che affrontati, ma la linea è quella: fare informazione per un paese che Tv7 immagina migliore, con un’opinione pubblica consapevole. I dati dell’audience gli danno ragione e il successo è tale che la trasmissione passa presto dalla seconda alla prima serata. E viene protetta con un’operazione aziendale che piazza in contemporanea, sul secondo canale, un genere di nicchia, il teatro, che restava sotto il milione di telespettatori mentre Tv7 ne faceva in media oltre dieci. La trasmissione può contare su inviati di punta come Andrea Barbato, Piero Angela, Giuseppe Fiori, Gianni Bisiach, Corrado Augias, Carlo Mazzarella, Gianni Minà, Raniero La Valle, Ugo Gregoretti. E non mancano i  collaboratori esterni, da Arrigo Levi ad Alberto Ronchey a Goffredo Parise. Nel ’68 Pier Paolo Pasolini pubblica su Tv7 i suoi Appunti per un film sull’India.

Il programma piace al pubblico, ma è un’anomalia nel sistema comunicativo, disturba i palazzi, e i benpensanti, per i temi che propone e per come li tratta, per l’efficacia del modello narrativo: testo essenziale, interviste snelle, grande fotografia (i migliori operatori della Rai, veri e propri reporter, come Alberto Corbi, Franco Lazzaretti, Paolo Arisi Rota), montaggio veloce (una squadra di eccellenti montatori in esclusiva per il settimanale, da Beppe Baghdikian a Luciano Benedetti a Jenner Menghi). Più cresceva il consenso del pubblico, più disturbava. E i poteri si sono fatti sentire.

La prima occasione fu la tragedia del Vajont, 9 ottobre del ’63. Cinque giorni dopo, Tv7 trasmette due servizi, uno di cinque, uno di quindici minuti. Parlano i sopravvissuti e dicono quello che non si vuol far sapere, che la catastrofe non era naturale ma annunciata con la costruzione della diga. L’opposto della versione ufficiale, sostenuta dalla gran parte della stampa. Ecco l’anomalia di Tv7. A pagarla quella volta sono il capo redattore, Claudio Savonuzzi, e Antonello Branca, il free lance che aveva raccolto quelle voci andando subito sul posto.

Uno choc, ma Tv7 non cede, non rinuncia alla sua “anomalia”. Fino all’ultimo numero del luglio ’71 sarà un gioco di resistenza, settimana per settimana. Una linea condivisa da tutti, con le sfumature dovute ai ruoli oltre che alle personalità: dai redattori, inviati, collaboratori; dai responsabili del programma che si succedono dal ’63 al ’71 (Aldo Falivena, Brando Giordani, Emilio Ravel); dalla direzione del Telegiornale (il direttore Fabiano Fabiani e il suo vice Emmanuele Milano). Perché Tv7 era quello, e l’alternativa era una sola: chiuderlo. E lì si arriverà, ma quando il quadro politico sarà completamente cambiato.

Eravamo sotto osservazione, lo sapevamo. Dall’interno dell’azienda e dall’esterno. Diciamolo pure: alla destra politica e ai suoi giornali non piacevamo. Eravamo accusati di destabilizzare, di fomentare, di mettere a rischio praticamente tutto, la disciplina scolastica, la pace sociale, la morale e le alleanze internazionali. Lavoravamo con passione ma sapevamo di dover fare i conti con i palazzi. Perciò ogni volta la domanda era: fin dove possiamo spingerci? I più bravi a rispondere erano i montatori, che ti offrivano quello che chiamavano “lo specchietto per le allodole”. Ti consigliavano, per esempio, di lasciare il brano più radicale di un’intervista, che quasi certamente sarebbe stato tagliato, in modo da proteggere un altro passaggio più sfumato nell’espressione ma altrettanto critico. I servizi sui temi caldi passavano infatti un esame “politico”: venivano in moviola a vederli il direttore del Tg e il direttore generale, Fabiani e Bernabei. Non erano visite censorie, direi piuttosto una verifica dei rischi: fin dove si poteva arrivare? loro lo sapevano, immaginavano le reazioni. Si usciva dalla moviola con qualche taglio e qualche frase da aggiungere o limare. Con i montatori che si lamentavano perché magari mancava solo un’ora alla trasmissione e si lavorava con la pellicola e il nastro. Chi aveva fatto il pezzo ci restava male: ogni taglio era una ferita. Ma poi si capiva che era il prezzo da pagare per andare in onda. Non era passato tutto ma la sostanza era rimasta. Lo confermavano le reazioni del giorno dopo. E le discussioni al vertice dell’azienda. Lo scandalo era nel fatto stesso di aver trattato quel tema, su cui il notiziario aveva più o meno sorvolato, di non aver tenuto conto delle posizioni di qualche partito di governo, di aver dato troppo spazio alle voci critiche. In consiglio d’amministrazione spesso Bernabei rispondeva mettendo sul tavolo una montagna di ritagli stampa sull’argomento: “Se facessimo come i giornali, altro che un servizio di Tv7 dovremmo trasmettere”. Alibi dell’informazione Rai, diceva del programma la stampa di sinistra. Che elogiava il settimanale ma lo invitava a spingersi più avanti, a non fermarsi a una denuncia “generica”, ma quel generico era già oltre i limiti.

Nel ’68 della contestazione studentesca le tensioni si inasprirono. Con continue, logoranti reazioni a ogni servizio sul tema, dalla Francia a Valle Giulia. Ma toccò al Vietnam far precipitare la situazione. Il16 agosto del ’68 (era il numero 200 del settimanale) andò in onda un reportage di Furio Colombo, I bambini di Bien Hoa, uno straordinario documento sui bombardamenti americani e gli orrori della guerra.  Non era la prima volta che Tv7 parlava del conflitto in Vietnam, ma questa volta lo faceva con materiale originale: Colombo era andato sul posto con un nostro operatore, Angelo Pieroni. Un vanto per l’azienda. Ma non fu così. Urla e strepiti, non figurati ma reali, il giorno dopo la messa in onda, alla proiezione del reportage in una saletta di via Teulada, per il consiglio d’amministrazione. L’accusa era di oltranzismo antiamericano, antiatlantico. Può far ridere, ma le conseguenze ci furono, e molto gravi. Per aver fatto passare quel servizio, Fabiani dovette lasciare la direzione del Telegiornale.

Il colpo finale arrivò con “Un codice da rifare” di Sergio Zavoli, un’ora di trasmissione, un’intera puntata sul codice Rocco e la sua incompatibilità conla Cartacostituzionale, in particolare sulla libertà di manifestazione del pensiero. Andò in onda nel gennaio del 1970, neppure un  mese dalla strage di piazza Fontana. La reazione fu furibonda, la destra cercò tutti i pretesti per farla finita con un programma che non tollerava. Fu aperta una vera e propria istruttoria sul servizio, che durò qualche settimana e scatenò uno scontro durissimo sulla stampa e in Parlamento. Zavoli fu difeso fino in fondo da Bernabei, ma il Presidente della Rai, Aldo Sandulli, dovette dimettersi.La Raipagò un prezzo altissimo. La resistenza di chi per anni aveva difeso l’autonomia dell’informazione, era stata battuta. Tv7 proseguì fino all’estate del 1971, ma da quell’attacco in realtà non si riprese mai. Chiuso Tv7, per un anno il Tg non ebbe un settimanale. Si era ormai entrati in quella notte della Repubblica di cui non si è ancora vista la fine. Ma l’energia di Tv7 era tale che non poteva spegnersi d’un colpo. Alimentava un’idea di televisione che è sopravvissuta alla sua fine, quella di un forte aggancio con la realtà, con le espressioni più vive della società e della cultura, l’idea della televisione servizio pubblico.


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