La tragedia di Moro 40 anni dopo

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Mi trovo qui a scrivere, dopo più di quarant’anni, un articolo sulla vita e sulla  tragedia vissuta da Aldo Moro, rapito il 16 marzo del 1978 dalle Brigate Rosse, rinchiuso in un’angusta prigione a Roma e dopo 54 giorni di interrogatori ucciso e lasciato in via Caetani – a metà, come allora si disse – tra la sede della Democrazia Cristiana di Piccoli e Andreotti e il Partito comunista italiana di Enrico Berlinguer.

E, per quanto conosca bene i suoi scritti e abbia scritto un lungo saggio sui terrorismi italiani per la Storia dell’Italia repubblicana pubblicata negli anni novanta presso le edizioni Einaudi  che vorrei trasformare in un libro se riuscirò a  farlo, sono ancora – dopo più di trent’anni – molto  colpito da quell’avvenimento e mi chiedo ancora quale significato esso conservi  nella difficile e tormentata storia dell’Italia repubblicana.

Aldo Moro è stata – senza dubbio alcuno – una figura centrale della classe politica italiana in una fase difficile e tormentata del primo quarantennio repubblicano.

Nato a Maglie, in provincia di Taranto nel 1916, laureato all’Università di Bari nel 1938 con una tesi sulla capacità giuridica penale che diverrà subito un libro, iscritto alla Fuci e al GUF, quindi giovane presidente dell’Azione Cattolica, diventa, nel 1940, il presidente nazionale dell’organizzazione.

E’ un giovane studioso che non fa subito una scelta antifascista ma che, con la guerra e la successiva catastrofe italiana,

aderisce al partito cattolico, vicino alla corrente che fa capo a Dossetti, Lazzati e Fanfani.

E’ subito deputato all’Assemblea Costituente e partecipa alla commissione dei 75  incaricata di predisporre il testo della carta costituzionale.

E’  tra i protagonisti dell’ acceso dibattito e Nilde Jotti, che presiedette a lungo la Camera dei deputati, testimonia che Togliatti ascolta con particolare interesse gli interventi del giovane deputato pugliese, il cui contributo  è importante su parti essenziale della Costituzione, a cominciare dall’articolo 1 della Carta che concerne il fondamento della Carta sul lavoro come sul carattere antifascista del testo approvato negli ultimi giorni del  dicembre 1947.

Rieletto nelle elezioni del 1948 con più di 50mila preferenze,

diventa sottosegretario agli Esteri nel III governo De Gasperi e mantiene una posizione autonoma tra i dossettiani. Tre anni dopo quando Dossetti abbandona la politica e scioglie la corrente, Moro è tra i fondatori di Iniziativa Democratica, la corrente di Fanfani, Taviani e Rumor ma anche nella nuova corrente resta, per così dire, per conto suo.

Accetta nel ’53 il sistema maggioritario di legge maggioritaria e viene eletto, per la sua posizione di mediazione tra tesi diverse, presidente dei deputati democristiani. E’ dopo la scomparsa di de Gasperi, l’anno dopo, ministro di Grazia e Giustizia nel governo Segni del 1955 e ministro della Pubblica Istruzione nei governi Zola e Fanfani nel 1957 e 1958.

L’ascesa di Aldo Moro alla guida della Democrazia Cristiana si realizza all’indomani delle elezioni del 1958 che vedono la DC vittoriosa sui suoi avversari e Fanfani per un breve periodo segretario del partito e presidente del Consiglio.

Eletto segretario del partito dopo le dimissioni di Fanfani, si rivela per quello che è: un leader naturale che, se ha di fronte compiti che stimolino l’intelligenza e lo spingano a porre in secondo piano gli studi e l’insegnamento, mette da parte la sua apparente pigrizia ed è in grado di esercitare un ruolo di primo piano nella politica nazionale.

In quel momento Moro si rende conto, di fronte all’analisi di una società come quella italiana che si sta trasformando in maniera rapida e tumultuosa, che non è più possibile andare avanti nè con l’appoggio più o meno esplicito delle destre nè con governi che non godano di una maggioranza parlamentare certa, e che, dunque, la strada da intraprendere per non tradire quel volto di partito popolare e antifascista più volte ribadito dallo stesso Moro nei congressi del dopoguerra, è quello di portare al governo uno dei partiti della sinistra che rappresentano la maggioranza delle classe lavoratrici.

Nasce di qui l’apertura a sinistra e, dopo l’esaurimento di quella fase alla fine degli anni sessanta, al partito comunista prima con la strategia della solidarietà nazionale o compromesso storico che dir si voglia a seconda del punto di vista da cui partono i due protagonisti, Moro e Berlinguer e dopo il fallimento di  quel difficile compromesso la strategia dell’attenzione interrotta irrimediabilmente dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro.

Ci sarà tempo e modo in altra sede e in altri tempi di quel che ha significato per la repubblica l’episodio che ha troncato la vita del giurista cattolico.

Vorrei soltanto ricordare a conclusione di questo articolo una lettera datata 28 aprile 1978 di Aldo Moro dalla sua prigione segreta. La prima è indirizzata alla Democrazia Cristiana, il partito di cui era allora presidente: ” In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato. E, pur

con le mie tante colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli (…) Ma questo bagno di sangue non andrà bene nè per Zaccagnini nè per Andreotti nè per la D.C. nè per il paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità. Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e a pregare per me. Se tutto

questo è deciso sia fatta la volontà di Dio. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l’adempimento di un presunto dovere. Le cose saranno chiare, saranno chiare presto.”

Un testamento limpido e ammonitore dopo più di 40 anni

di inchieste e processi che non hanno chiarito ancora tutti gli aspetti decisivi di quella tragedia.


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