Perché la Festa della Liberazione non diventi “Giornata della Rimozione”

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Come le foglie, avvizzite dagli anni inclementi, che l’ultimo vento di un inverno attardato smuove dalla secolare quercia della libertà, cullate dall’aria della memoria e deposte a terra per riposare in eterno, così se ne vanno i nostri “padri” della Repubblica, un tempo giovani e inconsapevoli eroi della Resistenza contro i barbari nazi-fascisti. Chi ricorderà ancora i loro nomi, i loro volti, le loro storie di vita quotidiana? Chi parlerà ancora di loro ai pronipoti, increduli e ignari di una storia patria ormai volutamente taciuta dalla incuria politica e dal ciarpame mediatico?

Sono rimasti ormai in pochi i sopravvissuti alla guerra di Resistenza, come gli ebrei scampati ai campi di sterminio: i più “giovani” hanno da poco superato gli 85 anni e cercano con i loro occhi un po’ velati di passare il testimone dei ricordi e della fierezza ai giovani indignati di oggi. Il 25 Aprile è la loro Festa, il loro epifenomeno rituale, che li vede ancora protagonisti sempre più soli e sfiduciati. Eppure il loro orgoglio, la loro indignazione, li spinge a manifestare, a celebrare questa giornata fondamentale per la nostra storia. Se poi insieme a loro sfilano cittadini consapevoli dei valori resistenziali, ma non le “autorità” locali e nazionali della Repubblica in roboante decadenza, questo non è affar loro. I valori della Resistenza si dovrebbero celebrare ogni giorno negli atti pubblici dei governi, nell’amministrazione della vita politica, sociale e istituzionale e non, invece, relegarli in soffitta o addirittura cercarli ufficialmente di ignorarli e di gettarli in un “armadio della vergogna”. E’ quanto è successo in questi ultimi 20 anni, durante il “Regime berlusconiano”, con il malcostume di un capo di governo paladino del “Revisionismo storico”, portavoce di quel movimento assurdamente assolutorio della “pacificazione”, di quanti (a destra ovviamente, ma anche a sinistra!) vorrebbero mettere sullo stesso piano i giovani che scelsero la Resistenza e quelli che aderirono alla gaglioffa “Repubblica di Salò”, alleata dei nazisti di Hitler, nemica delle forze alleate di liberazione.

Noi non dimentichiamo e non dimenticheremo! Anzi, cogliamo questa occasione per ricordare due protagonisti di quell’epoca, un uomo e una donna, compagni nella lotta di Liberazione e compagni nella vita privata, negli affetti: Rosario, Sasà, Bentivegna, e Carla Capponi, lui medaglia d’argento e di bronzo al valor militare, lei addirittura medaglia d’oro. I loro nomi sono indissolubilmente legati all’attentato organizzato dai GAP (Gruppi di azione patriottica) in Via Rasella, a Roma, il 23 Marzo 1944, contro un battaglione del Polizeiregiment Bozen, composto da 156 militari. Ne morirono 33 e per ritorsione il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante del fronte meridionale, ordinò al capo della Gestapo di Roma, il colonnello  delle SS Herbert Kappler (già protagonista della deportazione dal Ghetto, il 16 ottobre 1943, di 1.023 ebrei romani verso i campi di concentramento), e al suo aiutante Erich Priebke, di sterminare 335 prigionieri  (antifascisti, ebrei, delinquenti comuni ) alle Fosse Ardeatine, le cave di pozzolana sulla via Ardeatina. In meno di 23 ore dall’attentato (senza avvisare la popolazione né con manifesti né via messaggi alla radio affinchè si presentassero gli autori dell’attentato), i nazisti li trucidarono, dalle 14 del 24 marzo alla stessa ora del 25, con mitragliatrici e colpi finali alla testa per “rappresaglia”, come prevedeva il oro “codice di guerra”: 10 italiani per 1 tedesco, anche se ne furono aggiunti 5 in più per la macabra mattanza. Per coprire questa ennesima vergogna inumana, le cave  furono fatte minare, in modo che nessuno potesse scoprile subito. Ma c’erano dei testimoni oculari che fecero conoscere a tutta “la città aperta” di Roma il tragico evento. La verità storica, da sempre contrastata dai neo-fascisti e dagli storici revisionisti è documentata negli atti processuali contro i gerarchi nazisti e dalle testimonianze dei diretti protagonisti: “Non fu mai pubblicato nessun editto, col quale invitare i patrioti a consegnarsi ai nazisti.

La prima notizia, riportata dal quotidiano “Il Messagero” a mezzogiorno del 25 marzo, si concludeva con la terribile frase: “Quest’ordine è già stato eseguito”. Lo stesso Maresciallo Kesserling confermò che non fu mai emesso alcun avviso o richiesta di consegnarsi ai partigiani nel corso della sua deposizione al processo contro i generali Maeltzer e Von Mackensen come criminali di guerra (Testmonianza del Feldmaresciallo Kesserling all’udienza del 25 novembre 1946 presso il tribunale militare di Roma). Atti del processo ai generali Maeltzer e Von Mackensen, 1946/1947, in C. De Simone, “Roma città prigioniera, i 271 giorni dell’occupazione nazista, 8 settembre ’43 – 4 giugno ’44. Mursia – Milano 1994). Quel 23 marzo di quasi 70 anni fa, Sasà Bentivegna, travestito da netturbino mise il carretto imbottito di tritolo e Carla Capponi gli teneva in disparte un impermeabile per permettergli di cambiarsi e fuggire indisturbato. Altri 10 “gappisti” coprivano l’azione e le vie di fuga. I due, poi,  si sposarono la sera del 20 settembre del ’44 e la mattina dopo Bentivegna, su ordine del ministero della guerra, partì per il Sud della Jugoslavia con l’incarico di commissario della 4ª Brigata della Divisione Partigiana Italiana Garibaldi, reparto regolare dell’Esercito Italiano che operava nella zona. Una famiglia la sua di origine siciliana, con trisavoli, bisnonni e nonni, protagonisti delle lotte risorgimentali contro i Borboni e poi a fianco di Garibaldi nelle guerre per l’unità d’Italia (Giuseppe Bentivegna, prozio, fu uno dei tre colonnelli di Garibaldi sull’Aspromonte, nel 1862).

Evidentemente, l’aver respirato quell’aria irredentista e risorgimentale, garibaldina appunto, lo spinse già da universitario, a 19 anni, ad organizzare manifestazioni anti-regime con altri componenti della “fronda” dei GUF, i gruppi universitari fascisti, che fu in realtà una fucina di antifascisti. Nel 1943 aderì al PCI clandestino per poi passare a comandare una delle formazioni dei GAP nella capitale. Divenne medico nel ’47 e per tutta la vita operò come specialista di medicina del lavoro, impegnato in attività volontaristiche, oltre che nell’attività politica dentro il PCI, sempre in posizione antisovietica (tanto da dimettersi nel 1985 dal partito proprio per il perdurare di una certa ambiguità nei rapporti con l’URSS). Fu comunque protagonista della nuova stagione del PCI, durante la trasformazione del partito fino a diventare PD, al quale si iscrisse subito nel novembre del 2007.  Prima di morire a quasi 90 anni, il 2 aprile di quest’anno, era membro della Presidenza Onoraria dell’ANPI Nazionale e presidente onorario dell’ANPI di Roma. Era talmente permeato dei valori risorgimentali e resistenziali, che anche a 46 anni, in piena “contestazione”, tra il ‘68 e il ‘69 organizzò insieme alla figlia Elena, ventitreenne, l’espatrio e il trasporto clandestino in Italia con mezzi di sua proprietà (un motoscafo d’altura e un’auto), di alcuni oppositori alla dittatura dei colonnelli in Grecia. Lo stato italiano, nonostante questi suoi atti a favore della pace e della democrazia, non lo ha mai riconosciuto con una onorificenza. “Manca Carla questa sera”, disse con malinconia, a Marzo, ricordando in Campidoglio appunto la Capponi, scomparsa nel 2000. A quasi 90 anni, Sasà, aveva presentato il libro autobiografico «Senza fare di necessità virtù», edito da Einaudi. Al centro del suo racconto, ancora una volta quell’attentato di Via Rasella, che gli aveva valso l’infamante calunnia, ripetuta da storici non solo revisionisti, da politici di destra e da giornalisti “prezzolati”, che si era sottratto alla cattura dei tedeschi, nonostante il proclama (che in realtà non c’era mai stato), favorendo così la strage delle Fosse Ardeatine. E a riprova della sua correttezza, aveva ricordato di aver vinto l’ultimo processo nel 2009, facendo condannare per diffamazione Maurizio Belpietro per un articolo de “Il Giornale”, uscito nel 2002. Carla Capponi, la sua compagna di sempre, era una signora romana incredibilmente ironica. Anche lei come Sasà era una “comunista atipica”, che non sopportava i metodi un po’ staliniani che sopravvivevano dentro al PCI anche dopo il 1973, all’indomani della teoria del “compromesso storico” e della ricerca di una terza via, europeista, tracciata da Enrico Berlinguer. Più anziana di 4 anni di Sasà, proveniente da una famiglia di tradizioni antifasciste, si era formata all’esclusivo liceo Visconti (nella sua classe c’erano il futuro regista Carlo Lizzani e quello che sarebbe diventato uno degli urbanisti più impegnati di Roma, Piero Della Seta). Conobbe Sasà, subito dopo il bombardamento di San Lorenzo, al Policlinico, dove lui studente di medicina stava aiutando i feriti. E così anche lei si mise a fare la volontaria. Poi, nel settembre del ’43, inizia la sua militanza nella Resistenza e si rende protagonista di vari episodi davvero da eroina: a Porta Capena assiste al mitragliamento di un carro armato italiano in ritirata, da parte di un più potente panzer “Tigre” tedesco; attraversa temeraria la strada e salva la vita al carrista italiano, trascinandolo fuori. Rientrata in casa, accoglie in famiglia numerosi sbandati e sfollati. Dopo l’occupazione tedesca, entra anche lei nel PCI clandestino e partecipa nel GAP Centrale “Carlo Pisacane”, comandato da Bentivegna. In ottobre, poiché i compagni dei GAP le negavano l’armamento, riservando alle donne solo funzioni di appoggio, ruba la pistola a un milite della GNR, la cosiddetta Guardia nazionale repubblicana, in un autobus sovraffollato. Durante l’avanzata degli alleati dal Sud, oltrepassa le linee nemiche e si unisce con l’armata americana sul fronte di Cassino. Nel 1953 viene eletta deputata nelle liste del PCI; si ripresenta nel 1972 e a Roma ottiene il più alto numero di preferenze di lista dopo Enrico Berlinguer. Pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 24 novembre del 2000, pubblica il libro di memorie Con cuore di donna. Faceva parte del Comitato di presidenza dell’ANPI.

A noi piace ricordarli insieme così, con l’aiuto delle magiche parole di una profetica canzone di Francesco Guccini, “Il vecchio e il bambino”, in quella lontana estate del ’43, quando Carla e Sasà “si presero per mano e andarono insieme incontro alla sera, la polvere rossa si alzava lontano e il sole brillava di luce non vera…L’ immensa pianura sembrava arrivare fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare e tutto d’ intorno non c’era nessuno: solo il tetro contorno di torri di fumo… “. E loro cambiarono il corso della storia insieme a tanti altri giovani di allora, ieri solo coraggiosi amanti della libertà, oggi eroi di un’Italia troppo spesso dimenticata.


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