Giornalismo sotto attacco in Italia

Il concetto di finito e il dominio delle forme, relazioni di potere di oggi

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Martedì 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne e ogni forma di violenza di genere, dalle ore 16 alle 18 si terrà la lectio magistralis del Prof Emerito di Sociologia Paolo De Nardis presso la cattedra del prof di Estetica Antonio Valentini al Dipartimento di Filosofia di Sapienza Università di Roma a Villa Mirafiori, via Carlo Fea, 2.

C’è un filo sottile, quasi invisibile, che lega la malinconia del “finito” leopardiano alla vivacità formale della modernità descritta da Georg Simmel; è il filo dell’effimero, del contingente, del divenire incessante che scandisce la vita individuale e collettiva.
Nella distanza che separa Recanati da Berlino, tra la meditazione poetica e la riflessione sociologica, si consuma un medesimo pensiero: la forma come espressione della finitezza e la moda come suo emblema. Nel suo 
Dialogo della Moda e della Morte (1824), Leopardi offre una delle più lucide e ironiche rappresentazioni della modernità nascente. La Moda e la Morte, due sorelle, camminano insieme: “Io sono amica tua”, dice la Moda alla Morte, “e per me si rinnova continuamente la stirpe umana”. Qui Leopardi coglie un paradosso ontologico e sociale: l’umanità, nel suo tentativo di mascherare la propria decadenza, produce incessantemente novità.
La moda, dunque, non è semplice frivolezza: è la forma che il desiderio di eternità assume in un mondo che non conosce altro che il divenire. La “Moda” leopardiana non crea valori, ma sostituzioni; non rinnova l’essere, ma ne prolunga la finitudine, rappresentando il ritmo con cui il nulla si traveste di forme sempre nuove. In questa logica, l’effimero diviene legge e il mutamento il suo dogma. “Ogni piacere è un dolore dissimulato”, sembra sussurrare Leopardi, e la moda è la maschera sociale di questa consapevolezza tragica.

Il concetto di effimero, come cifra della sensibilità moderna, nasce nel cuore dell’Ottocento, il tempo in cui la vita urbana e la rivoluzione industriale impongono una nuova percezione del tempo, accelerato, frammentato, instabile. Charles Baudelaire, nel suo celebre saggio Le peintre de la vie moderne (1863), aveva già colto la natura transitoria della bellezza moderna, definendola come «il transitorio, il fuggitivo, il contingente, metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immobile». Per Baudelaire, l’effimero non è un accidente: è la forma stessa attraverso cui l’eterno si manifesta. Il moderno è colui che sa cogliere “l’eterno nel transitorio”, la verità nel frammento. Questa intuizione estetica si tradurrà, pochi decenni dopo, in una filosofia della forma in Simmel e in una poetica del limite in Leopardi.

Walter Benjamin, commentando proprio Baudelaire, parlerà della vita nervosa della metropoli, in cui l’esperienza diviene “shock” e il senso dell’opera — o della persona — si dissolve nel ritmo della merce. L’effimero diventa così la grammatica dell’esperienza moderna e la moda, in questo contesto, non è che la più visibile incarnazione del principio di transitorietà: un fenomeno in cui il valore è determinato dalla durata stessa della sua esistenza. L’oggetto — come l’idea — vale solo finché è nuovo, e il nuovo vale solo finché è fugace, caduco.

Quando Georg Simmel, quasi un secolo dopo Leopardi, esce con La moda (1895) e poi con Filosofia del denaro (1900), riconosce nella moda non un accidente marginale, ma un fenomeno strutturale della modernità. Per Simmel, la moda è “una forma di socializzazione” in cui si intrecciano due pulsioni opposte: quella all’imitazione e quella alla distinzione. L’individuo, nel tentativo di affermarsi, si adegua, si conforma e, nel farlo, scompare. Ma in questa oscillazione si manifesta la dinamica più profonda della vita moderna: la forma nasce dal movimento, e subito muore nel suo stesso successo. Come scrive Simmel: “La moda non vive che del suo rapido decadere; il suo valore dipende dal suo destino.”

In altri termini, l’effimero non è un accidente della modernità, ma il suo principio costitutivo. Là dove Leopardi vedeva nella moda la sorella della morte, Simmel vi scorge la sorella della vita: una vita che, per durare, deve continuamente dissolversi in nuove forme. Nel pensiero simmeliano la forma non è mai statica: è il luogo in cui la vita si arresta momentaneamente per darsi un volto. Ma ogni forma, come ogni moda, è condannata a svanire, perché la vita la supera. Il “finito”, allora, non è solo limite: è la condizione stessa del movimento vitale. Ecco che allora il punto d’incontro tra Leopardi e Simmel risiede nel concetto di finito. Per Leopardi, il finito è la condizione dolorosa dell’uomo, condannato a percepire l’infinito senza poterlo possedere. Per Simmel, invece, il finito è la condizione estetica e sociale della modernità: l’unica via attraverso cui la vita può manifestarsi. “La vita — scrive Simmel nella Filosofia della moda — non può che esprimersi in forme finite, e in ciò stesso essa si nega”. Da Leopardi a Simmel si compie, dunque, un vero e proprio rovesciamento: ciò che in Leopardi è tragedia metafisica, in Simmel diviene morfologia della società. L’effimero, che per Leopardi era segnale del nulla, per Simmel è la legge dell’esistenza culturale. La moda, l’arte, il gusto, la città: tutto è forma che si consuma, gesto che si dissolve nel tempo.

Nella nostra epoca contemporanea, nel nostro presente digitale – dove la “forma” è continuamente riprodotta, condivisa, filtrata – il pensiero di entrambi ritorna con una forza sorprendente.
La moda, nel senso più ampio, ha invaso ogni sfera dell’esperienza: linguaggi, idee, identità, emozioni. Tutto ciò che appare tende a disfarsi nel flusso delle immagini e delle tendenze. Viviamo in una società in cui l’effimero non è più segno di caducità, ma di vitalità: l’aggiornamento costante, la novità permanente, l’istante condiviso sono diventati la forma stessa del vivere.
Ma, come ammoniva Leopardi, “il piacere nasce dal desiderio, e il desiderio dalla mancanza”: dietro l’incessante ricerca del nuovo, si cela la nostalgia di un eterno che non si contempla più. Simmel ci mostra, allora, che il dominio delle forme non è solo estetico o sociale, ma spirituale: una condizione in cui l’uomo moderno trova la propria libertà solo accettando la propria finitezza.

In questa civiltà dell’apparire, persino le relazioni di potere si riproducono attraverso le forme:
la violenza di genere, più che un residuo arcaico, è un fenomeno che la modernità estetizzata ha solo mascherato: non più semplice ferita fisica o dominio esplicito, ma 
violenza simbolica – come la chiama Bourdieu- esercitata attraverso immagini, linguaggi, modelli sociali. Il corpo femminile — esibito, giudicato, performato — diventa superficie di rappresentazione, luogo di proiezione del desiderio collettivo e, al contempo, oggetto di controllo. E, come la Moda leopardiana, la cultura visiva contemporanea rinnova incessantemente le sue forme, ma raramente rinnova il suo sguardo: perpetua l’idea del corpo come “cosa finita”, da possedere, consumare, talvolta gettar via.

Proprio Simmel ci insegna che la forma è ciò che dà vita al mondo sociale, ma anche ciò che può imprigionarla: quando la forma diventa maschera e dominio, infatti, l’individuo perde la propria interiorità. Così accade nella violenza di genere, dove l’altro — quasi sempre la donna — è negato nella sua soggettività e ridotto a immagine, a funzione, a oggetto di potere.
Il gesto violento è, in fondo, una negazione del principio stesso della forma vitale: è la fissazione definitiva dell’altro, la sua riduzione a immobilità.

Leopardi, che aveva intuito la fratellanza tra Moda e Morte, avrebbe forse visto nella forma del possesso la terza sorella: quella che unisce il desiderio di dominio alla paura della perdita.
E se, come ricorda Judith Butler, il corpo è sempre una costruzione sociale e relazionale, allora la liberazione dal dominio passa anche attraverso una trasformazione delle forme — del linguaggio, dello sguardo, delle rappresentazioni — che ci definiscono. Riconoscere la violenza di genere nel dominio delle forme significa, dunque, riconoscere che ogni struttura di potere inizia da una
Weltanshauung, da un modo di vedere: solo restituendo al corpo e alla parola la loro vitalità — e quindi il loro pieno diritto di mutare, di divenire, di sfuggire alle forme imposte, a dettami sociali patriarcali e obsoleti — è possibile rompere il cerchio dell’effimero come dominio e restituirlo all’effimero come scelta critica, quindi come libertà. Perché forse il vero infinito non si cela oltre la forma, bensì proprio nella sua continua metamorfosi.


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