Come tanto grande cinema realizzato in questi ultimi anni, da artisti come Gianfranco Rosi, Alberto Fasulo, Michelangelo Frammartino, D’Anolfi-Parenti, Brenta–De Villers, Roberto Minervini, che si muove, genialmente, a metà strada tra finzione e documentazione, anche “San Damiano” è molto più di un documentario sull’emarginazione. È un viaggio dentro una realtà parallela, nascosta ma vicinissima, abitata da uomini e donne che, pur vivendo ai margini, sembrano custodire una forma radicale di libertà. I registi, con uno sguardo rispettoso e mai invadente, riescono a raccontare il mondo dei cosiddetti “barboni” della Capitale non come una realtà da compatire o rimuovere, ma come un universo altro, fatto di contraddizioni e verità che ci obbligano a interrogarci sulla nostra stessa idea di normalità.
Attraverso le immagini e le voci raccolte, Sassoli e Cifuentes ci portano in una sorta di terra di mezzo, dove la sopravvivenza quotidiana si mescola a gesti di dolcezza inattesa, dove la violenza convive con momenti di tenerezza autentica, e dove la follia, più che una malattia, sembra essere una risposta estrema e poetica a una società che ha smesso di ascoltare. Chi vive nel mondo raccontato in “San Damiano” sembra aver varcato una soglia invisibile. Non è stata una scelta politica o filosofica, ma qualcosa che è accaduto, forse poco alla volta, forse all’improvviso, e per i motivi più diversi. E una volta che sei dall’altra parte, tornare indietro non è semplice, anzi, vuol dire rinunciare a pezzi di sé, alla propria idea di chi si è diventati, ad ogni prospettiva altra. Quello che colpisce davvero, guardando il film, è lo strano equilibrio tra il peso della vita quotidiana, la fatica di trovare da mangiare, il freddo della strada che diventa casa, lo sguardo distratto o infastidito della gente, e una specie di impossibile lirismo che sbuca nei momenti più inaspettati. A volte in una frase detta quasi sottovoce, anche a se stessi, altre volte in un silenzio lungo, o semplicemente in come uno guarda l’altro, una panchina o anche una sigaretta. È in quella tensione, in quel contrasto tra il brutale e il fragile, che il film trova la sua verità più profonda. La camera non forza nulla, si limita ad osservare, ascoltare, accompagnare, anche situazioni molto dure da riprendere. Ne nasce un ritratto collettivo, sfaccettato e dolorosamente umano, dove l’amore sempre cercato, la solidarietà tra simili, la memoria del passato, si intrecciano con la rassegnazione, la ribellione, talvolta con la violenza, senza mai cedere a facili pietismi. Nel farlo, i registi compiono un’operazione sottile ma potente, ribaltando la prospettiva attesa da molti. Non sono loro, gli emarginati, “i vinti”, a doverci spiegare perché vivono così; siamo noi, i “normali”, a doverci chiedere cosa abbiamo sacrificato in cambio della nostra apparente sicurezza. La “borghesia del vivere”, fatta di routine, proprietà, identità ordinate, sicurezza pretesa, appare improvvisamente per quella che è, ovvero una costruzione fragile, mantenuta in piedi solo dalla paura di finire fuori, tra “loro”. Ma cosa succede se, invece di voltare lo sguardo, proviamo a entrare in quel mondo? “San Damiano” non offre risposte consolatorie, ma ci costringe a restare in bilico tra due visioni della vita. Da una parte, l’ordine, il controllo, la stabilità. Dall’altra, una libertà assoluta, ma pagata con l’invisibilità, l’estraneità, il dolore, la sofferenza. In questa ambiguità, che è anche bellezza, talvolta assoluta, risiede la forza del film.
Alla fine, quello che resta è la sensazione che i “barboni” di “San Damiano” non siano soltanto degli esclusi, ma gli abitanti di un altrove che sfida la nostra idea di realtà. Come alieni dimenticati sulla Terra, essi vivono in una dimensione che ha perso ogni contatto con le regole del nostro mondo, ma che conserva una sua autenticità feroce e commovente insieme. Guardarli, ascoltarli, significa accettare di mettere in discussione i nostri limiti mentali, i nostri automatismi, e forse, per un attimo, riconoscere in quello specchio, soltanto apparentemente deformato, una parte di noi stessi che abbiamo preferito dimenticare.