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“Fuori”, di Mario Martone, Ita-Fra, 2025

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Con Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna.

Ci sono film che ti rapiscono con una forza quasi ipnotica, facendoti scivolare lentamente nel mondo interiore dei protagonisti, nel loro sentire più profondo. “Fuori” è, almeno nella sua prima parte, uno di questi. Un’opera che riesce a portare sullo schermo la complessità di una figura come Goliarda Sapienza, scrittrice, attrice, intellettuale libera e irrequieta, senza mai tradirne il tormento interiore e il bisogno disperato di una vita vera. Merito di una regia che, come raramente accade nel cinema italiano contemporaneo, osa spingersi in territori espressivi inusuali, e soprattutto di una straordinaria Valeria Golino, che si cala nel personaggio con una grazia tormentata, consapevole eppure vulnerabile. La prima parte del film, tratto dal romanzo autobiografico “L’università di Rebibbia” della stessa Sapienza, si muove come un flusso interiore, una deriva quasi solipsistica che richiama potentemente “Morte di un matematico napoletano”, uno dei capolavori dello stesso Martone. Anche lì c’era una solitudine assoluta, esistenziale, raccontata più con l’atmosfera che con la parola, con i silenzi che con i fatti. In “Fuori”, Martone riprende quel registro, seguendo la Sapienza nel suo vagare per una Roma inquieta, popolata di stanze vuote, corridoi, attese e dialoghi interrotti. È una Roma che diventa teatro dell’anima, specchio dell’irrequietezza della protagonista, della sua tensione continua verso una libertà che è prima di tutto spirituale, filosofica, femminile. Goliarda Sapienza viene disegnata dall’artista napoletano come una donna che cerca qualcosa che abbia un senso, che, però, non si lascia trovare. Martone la segue con pudore e con una messa in scena che si affida a inquadrature fisse, tempi dilatati, pochi dialoghi e un uso accorto della musica (perfetto l’inserimento dei brani del grande Robert Wyatt) e dei suoni ambientali. È cinema che riflette sul pensiero, sulla memoria, sul dolore della marginalità, sulla resistenza alla normalità imposta. E in questo, il film tocca vette alte, coinvolgenti, talvolta incantevoli.

Poi, purtroppo, “Fuori” cambia registro. La seconda parte, che si concentra sulle relazioni che la scrittrice intrattiene con le detenute conosciute durante il suo soggiorno a Rebibbia, pare smarrire quella tensione e quella precisione di sguardo. Il racconto si arena. Martone perde il passo, e con lui anche la protagonista, che da fulcro diventa sfondo, quasi una comparsa nella sua stessa storia. Il carcere, che avrebbe dovuto essere uno snodo tematico forte, luogo di esclusione ma anche di riflessione, di contatto con l’altro, di nuove forme di libertà, viene descritto con un tono generico, a tratti quasi didascalico. Le dinamiche tra le detenute, che avrebbero potuto essere esplorate con maggiore profondità e ambiguità, finiscono per suonare come una sequenza di luoghi comuni. Le schermaglie, le alleanze, le frasi di circostanza sul potere, sulla repressione, sull’identità femminile, tutto appare già visto, già sentito. E la relazione tra Goliarda e la giovane terrorista Roberta, interpretata da Matilda De Angelis, che sulla carta poteva rappresentare anche un confronto generazionale, si risolve in un rapporto privo di tensione e di reale significato. Roberta non convince mai, né come personaggio, né tantomeno come figura politica. Nulla nella sua personalità, nei suoi gesti, nel suo dire lascia intendere che si tratti di una brigatista, fin quando non ce ne informa lei stessa. È una figura incerta, che sembra capitata lì per caso, più funzionale al copione che reale.

Questa caduta di tensione narrativa corrisponde a una vera e propria perdita di stile. Il film, che nella prima parte viveva di uno splendore misurato, quasi ascetico, si riempie di parole scontate, di sottolineature inutili, di un prosaico parallelismo tra prigione reale e prigione esistenziale. La regia stessa si fa più prevedibile, la fotografia perde intensità, le scelte musicali quasi si sprecano. Insomma l’incanto del film si è spezzato, e con esso si spegne anche la sua forza. Alla fine, “Fuori” resta un’opera incompiuta. Da un lato, una prima parte magistrale, che riesce nell’impresa rarissima di raccontare il pensiero con le immagini, di rappresentare la ricerca del sé con rigore estetico e profondità emotiva. Dall’altro, una seconda parte che abdica a quella complessità, rifugiandosi in uno sguardo sociologico semplificato e in una narrazione prevedibile. È un peccato, perché il personaggio di Goliarda Sapienza meritava un film che non si perdesse, che sapesse tenersi integro fino in fondo. Eppure, nonostante i suoi evidenti limiti, Fuori è un’opera che resta. Per quella prima ora incandescente, per la Golino, per il coraggio di mettere al centro non l’azione, ma il pensiero, il dubbio. È, dunque, un film imperfetto, ma da non perdere.


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