Con Nykiya Adams, Franz Rogowski, Barry Keoghan.
Con “Bird”, Andrea Arnold torna ad immergersi nei margini dell’Inghilterra, scegliendo stavolta le zone periferiche del Kent come palcoscenico narrativo. Di esse emerge una realtà difficile che impregna ogni aspetto della vita quotidiana: famiglie in frantumi, giovani abbandonati a se stessi, esistenze precarie. Tuttavia, a differenza della visione più dura e intransigente del cinema sociale europeo di ieri e di oggi, basti pensare al sottoproletariato romano di Pasolini, alle prime opere di Ken Loach, o alle vite allo sbando di Aki Kaurismaki, implacabili nel denunciare le disuguaglianze di classe, Arnold opta per un altro approccio. In “Bird”, la sofferenza non è assoluta, e la condizione di marginalità non è priva di sfumature. C’è spazio per la speranza che si fa strada tra mille difficoltà, per una vitalità inattesa nei contesti più cupi. Il tutto sottolineato e sostenuto da una colonna sonora fortemente rockeggiante. In tal senso, il film richiama le atmosfere della British Renaissance degli anni Ottanta e Novanta, quella di Stephen Frears o di Danny Boyle, che raccontava la durezza della realtà senza privarsi di spazi di fiducia. Una scelta sicuramente più politica che stilistica.
La protagonista del film è Bailey, una dodicenne interpretata dalla brava Nykiya Adams, la cui prova attoriale si rivela intensa ma discontinua. Figlia di un padre “simpaticamente” irresponsabile e di una madre assente, Bailey assume su di sé la responsabilità della propria esistenza e di quella dei fratellini. La cinepresa, talvolta troppo frenetica, la segue nei suoi giorni, tra tensioni familiari, fughe improvvisate, legami con gang di periferia, piccoli gesti d’amore e tentativi ingenui di cercare una direzione. Tuttavia, se sulla pagina Bailey appare come una figura forte e determinata, sullo schermo manca qualcosa. Arnold ne sottolinea i momenti di crisi e solitudine, ma non riesce a trasmettere davvero la potenza del suo cambiamento interiore. Un abito, che Bailey prima rifiuta ma che poi indosserà, nel finale, in occasione del matrimonio del padre con la nuova compagna, dovrebbe rappresentare il culmine simbolico del suo percorso evolutivo. Ma quella scena, invece di emozionare, risulta solamente illustrativa. Suggerisce un mutamento, ma non lo fa sentire. Ed è proprio questo il nodo centrale di “Bird”, la distanza evidente tra ciò che il film si propone di esprimere e ciò che riesce effettivamente a comunicare. Le intenzioni sono nobili e chiarissime, mettere in luce la capacità di resistenza degli individui più fragili, scorgere la bellezza nei luoghi trascurati, valorizzare i legami affettivi, ma la realizzazione spesso inciampa in una narrazione prevedibile, già tracciata, che fatica a sorprendere. Alcuni passaggi colpiscono, in particolare gli sguardi muti dei bambini vittime di abusi domestici, dove l’obiettivo riesce a cogliere un’autenticità lancinante, alla Cassavetes, ma si tratta di frammenti isolati che non riescono a fare sistema.
Il film cambia davvero direzione con l’arrivo di Bird, il personaggio che dà il titolo all’opera, interpretato da un magnetico Franz Rogowski. La sua comparsa ha il sapore dell’imprevisto, quasi dell’irreale. Una presenza dissonante, sospesa tra poesia e follia, che ricorda tanto l’indimenticabile “Matto” de “La strada ” di Federico Fellini, e che rompe la continuità del racconto, infondendogli un’energia inattesa. Bird è un vagabondo misterioso, un’anima errante che sembra abitare una dimensione parallela, fatta di visioni e parole che incantano lo spettatore. Non è facile definire il suo ruolo: un angelo di wendersiana memoria? una proiezione mentale di Bailey? una figura onirica? Sicuramente, il suo effetto sul film è evidente, ne scuote le regole, ne amplia l’orizzonte, ne rompe il tono realistico con un tocco di lirismo. Rogowski, con il suo fisico sgraziato e un volto segnato da una dolcezza ruvida, infonde a Bird una carica quasi archetipica, rendendolo incarnazione vivente della tensione tra il dolore terreno e il desiderio di fuga da esso.
Peccato che tutto ciò che ruota intorno a questo personaggio risulti di gran lunga più vibrante, più sincero e coinvolgente del resto della pellicola. Il rapporto tra Bird e Bailey rappresenta l’unico vero nucleo emotivo del film, perché si costruisce su un’empatia necessaria, silenzi e intuizioni, senza essere mai troppo esplicito. Ma questa singola relazione, per quanto efficace, non basta a colmare le debolezze complessive della sceneggiatura. I conflitti familiari e i rapporti con gli adulti disfunzionali seguono percorsi già battuti, con dialoghi che sembrano scritti più per spiegare che per rappresentare. Alla fine, “Bird” si configura come un’opera incompleta, ricca di spunti, ma incerta nella costruzione, capace di toccare corde profonde solo in rari momenti. Arnold conferma il suo talento nel catturare la luce che si insinua anche nelle pieghe del grigiore, ma non riesce ad intrecciare questi elementi in modo pienamente coerente e coinvolgente. E, paradossalmente, solo quando la metafora prende il sopravvento sulla realtà (il farsi di Bird “immaginario” uccello vendicatore), le emozioni riescono a liberarsi pienamente.
In definitiva, il film della Arnold è un progetto onesto e curioso, che tenta di narrare l’emarginazione da una prospettiva diversa, lontana dal pietismo e dai luoghi comuni. È un’opera che sogna di librarsi in volo, come i tanti uccelli che accompagnano mataforicamente la solitudine di Bailey, e in alcuni frammenti ci riesce, merito, soprattutto, bisogna ribadirlo, della presenza visionaria di Rogowski, ma che troppo spesso resta impigliata nelle sue stesse ambizioni. Il risultato è un racconto che affascina a tratti, che lascia intuire qualcosa di profondo, ma alla fine rimane sospeso tra il desiderio di dire verità scomode e la tentazione di lasciare viva una speranza che, talvolta, sembra proprio stonare con la dura realtà prima descritta senza alcuna remora.