Ribadiamo: papa Leone non è papa Francesco. Non concede selfie, non si lascia andare a baci e abbracci, saluta la folla ma non se ne fa travolgere e vive la sua missione con trasporto sì, ma al tempo stesso ponendo quel minimo distacco che il predecessore invece rifiutava del tutto. È un agostiniano e non un gesuita, non ha scelto il nome del poverello di Assisi e, con ogni probabilità, avverte il peso di un’eredità difficile da raccogliere, oltre a sapere benissimo di dover costituire una sintesi fra i tre pontificati che l’hanno preceduto per placare le ire dell’ala più conservatrice del mondo ecclesiastico, rimasta, per dirla con il compianto cardinal Martini, “indietro di duecento anni”.
Ciò premesso, è bastato ascoltare il discorso che ha tenuto ieri mattina nell’Aula Paolo VI, rivolto ai giornalisti, per rendersi conto di quanto siano inesatte e inutilmente malevole le analisi dei vaticanisti della domenica che continuano a dipingere Prevost come l’antitesi di Bergoglio. Semmai, è vero il contrario. Quando parla di una pace disarmata e disarmante, giusta, autentica e duratura, si pone infatti pienamente nel solco di Francesco, che alla pace ha dedicato l’intero pontificato e, negli ultimi anni, segnati da conflitti spaventosi, ne ha fatto la propria ossessione. E quando si rivolge ai giornalisti, esortandoli ad accantonare le parole d’odio, a disarmare la propria scrittura e a mettere le proprie conoscenze al servizio dell’umanità e non contro di essa, altro non fa che sottoscrivere idealmente la Carta di Assisi contro i linguaggi che minano l’essere umano, la sua dignità e, in alcuni casi, addirittura il suo domani. Senza contare l’appello affinché siano scarcerati tutti i cronisti imprigionati dai regimi: una presa di posizione fortissima, che sferza tutti i despoti sparsi per il pianeta, lanciando loro un avvertimento: proprio come il predecessore, anche l’attuale pontefice non si limiterà agli esercizi spirituali; sarà, al contrario, un protagonista attivo e partecipe del dibattito globale, non consentendo a chicchessia di brandire la fede come una clava, magari pretendendo la benedizione dei cannoni.
Poi è ovvio che ciascuno sia se stesso e che su alcuni aspetti marcherà una discontinuità, ad esempio non rifiutando alla radice il concetto di autorità come, invece, ha fatto il Papa “venuto dalla fine del mondo” per guidare la Chiesa con indosso virtualmente il saio. Il tentativo di Bannon e soci di avere un fantoccio trumpista sul soglio di Pietro, tuttavia, è fallito, anche perché Francesco era un gesuita coltissimo e astuto ed eravamo certi che non lo avrebbe consentito.
Leone, in conclusione, magari in maniera meno diretta, ha parlato alle menti ai cuori, invitando la nostra categoria a ritrovare se stessa e il proprio ruolo culturale, politico e sociale. E sia pur con la dovuta prudenza diplomatica, questo sì che è un messaggio rivolto a Trump, il presidente che ha trovato una democrazia, per quanto malconcia, e la sta trasformando in un sultanato. Da ieri c’è una voce in più a ricordargli che non è accettabile, e non è una voce che il magnate e la sua corte possano ignorare.