Claudio Romano, con “Ananke”, scritto in collaborazione con Elisabetta L’Innocente, e presentato, in anteprima alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro , nel 2015, firma un’opera visivamente austera (in pellicola Super 16mm) e spiritualmente densa, che si colloca in un dialogo sotterraneo ma profondo con tre giganti del cinema contemplativo europeo, Andrei Tarkovskij, Šarūnas Bartas e Béla Tarr. Il film, girato in un bianco e nero spettrale e spoglio, segue un uomo, una donna e la loro capra, in fuga da una terribile pandemia, dentro un paesaggio naturale imponente ma desolato, dove il tempo sembra immobile e ogni gesto è carico di un peso esistenziale.
Come nei film di Tarkovskij, il tempo in “Ananke” non è un semplice contenitore della narrazione, ma una componente essenziale e vitale. Romano adotta la lentezza come chiave per immergerci negli abissi delle immagini e delle sensazioni. La memoria si esplicita negli sguardi dei due protagonisti, come un richiamo al passato che si mescola con la realtà presente. L’uomo e l’ambiente, in questo senso, si fondono in un’unità mistica, simile alla poetica che Tarkovskij raggiunge in “Stalker”, 1979, o “Nostalghia”, 1983.
Šarūnas Bartas ha spesso ritratto individui sperduti in territori desolati, come nei suoi capolavori “Corridoio”, 1994, e “Lontano da Dio e dagli uomini”, 1996, dove l’ambiente fantasmatico diventa specchio dell’anima e testimone del fallimento della comunicazione umana. In “Ananke”, Romano sembra percorrere la stessa via: il paesaggio non è sfondo, ma parte integrante della narrazione. Le montagne sono intrise di una forza silenziosa, che rende il film un’esperienza più sensoriale che narrativa. Come in Bartas, il silenzio domina, e i dialoghi — quando presenti — non cercano spiegazioni, ma accompagnano l’ineluttabilità.
Più vicino a Tarr, invece, è il senso di ciclicità disperata e di inevitabilità del destino che pervade “Ananke”. Il titolo stesso, che richiama il concetto greco di necessità, suggerisce una riflessione sulla predestinazione, sulla condizione dell’uomo abbandonato a forze più grandi di lui. Come in “Satantango”, 1994, o “Le armonie di Werckmeister”, 2000, del grande regista ungherese, anche qui la lentezza dei movimenti, i piani sequenza immobili, l’azione ridotta all’osso, parlano di una realtà in rovina, dove ogni gesto è una lotta contro l’inanità.
Romano si affida a una grammatica visiva estrema, che respinge qualsiasi concessione alla spettacolarità o alla narrazione convenzionale. Non c’è musica, il linguaggio è minimale, il montaggio lascia spazio alla durata, al vuoto. È un cinema che mette alla prova lo spettatore, come quello dei suoi illustri riferimenti, ma che proprio per questo riesce a essere profondamente politico e spirituale al tempo stesso. “Ananke” è un atto di resistenza contro il perdersi dell’umanità, una provocazione a chi sfida l’essenza dell’esserci.