80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

Nostalgia del futuro

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Come una vaga stella che tramonta o come un leopardiano pastore errante nella notte, Sauro Mattarelli si congeda nel libro che vi ac­cingete a leggere, evocando l’immagine di un lumino, “isolato o plurimo, […], vettore laico del corpo mistico e della conoscenza”. Con questa pennellata, densa di ulteriori ri­mandi, im­pliciti ed espliciti, siamo tutti (ri)messi in gioco, individualmente e collettivamente, ri­chia­mati in primo luogo a testimoniare se ci sentiamo o meno almeno una scintilla di luce e se, tale lumino, sia solo esteriore e/o interiore, ed infine, soprattutto, se tale luce sia ancora capace, pur da sola (per quanto in una costellazione di altri lumi), di rischiarare il buio che ci sta intorno. Mattarelli ci conduce piano piano lungo un percorso denso di malinconia, politico ed al con­tempo intimo, che alimenta la sua ispirazione alla fonte di una tradizione, se non proprio perduta, or­mai esangue: quella del­l’ac­censione dei lumini nella sera del 9 febbraio per celebrare la Repubblica Ro­mana. Il saggio che ne consegue ci sfida ed altresì ci invita a ri­pensare un simbolismo ed un rituale proprio della più alta tradizione civile, che l’esperienza democratica e repub­bli­cana ha co­struito attraverso dolorose vicende, dense di gloria, eroismo e sangue, e, per questo, ci impone di ri­pensarne il sen­so, le origini, le radici e, per­ché no, le prospettive future. È in tale quadro concettuale, alimentato da un dialogo che va ma­turan­do da anni tra me e l’autore, che mi è stata data l’opportunità di aggiungere, quasi come un con­trappunto, qualche rifles­sio­ne più cir­co­stan­ziata sulla più antica storia della simbologia del fuoco, visto nella sua valenza sim­bolica, di po­­ten­za numinosa, spesso sfuggente, misteriosa, amica, ma talora anche distruttrice. In poche pa­gine pro­ve­rò, per quanto possibile, a tratteggiare alcuni aspetti della “ma­gia del fuoco”, della sua potenza, della sua ec­ce­zio­nale uni­ci­tà, senza ovviamente la pretesa di esau­rire una discussione oltremodo ampia e intricata con la promessa, peraltro, di evi­tare specia­li­smi e tecnicismi non necessari.

Può sembrare banale, ma il dominio del fuoco ha rappresentato un grave dilemma per i nostri più re­moti antenati. Sino a quando il suo segreto, quello connesso alla sua produzione ed al suo controllo, non furono compresi, la custodia dei fuochi accidentalmente venuti a disposizione degli esseri umani di per sé impose un atteggiamento protettivo, uno scrupolo crescente, giustamente indirizzato alla pre­­ser­va­zione di un pa­trimonio che, nonostante la sua pericolosità, risultava fragile. Allo stesso tempo, l’immagine di un fuoco cascato come fulmine dal cielo apriva percorsi molteplici per la fan­ta­sia mito­poietica, che poteva ravvisare nel fenomeno la presenza di un cuneo di fulmine di origine celeste, che scaturiva da un cielo di pietra trasparente. Come addomesticare tale potere, come renderlo controllabile senza al contempo offenderne la natura, certamente sovrumana? Ed è proprio l’addo­me­sti­camento di tale potenza primordiale, che di fatto ha rappresentato una delle conquiste principali del­l’umanità. Ciò si evince con chiarezza dal mito di Prometeo, la cui generosità emancipa il genere umano a costo di una pu­nizione tremenda e certamente straziante. Tale conquista è, infatti, osteggiata dagli dèi, che vedono nel segreto del fuoco un potere da non condividere con l’inferiore razza umana.

La cautela dinanzi al fuoco ed alla sua luce, il rispetto ed il timore che le sue fiamme, severamente incutono ed ispi­rano, sono sentimenti che hanno marcato il cammino dell’umanità e ne hanno altresì segnato mutamenti ap­parentemente pro­fani, quali il passaggio dal crudo al cotto o il comune gio­va­men­to di una più facile digestione dei cibi, etc., ma anche una progressiva ascesa verso una dimen­sione ed una percezione astratta, simbolica e metaforica, del divino, in cui la fiamma si cela o mani­festa, ad esempio come nel rovo infiammato di Mosè. Con un percorso similare, il fuoco viene anche ad incarnare un dio che tutto può divorare, ma che ha facoltà, attraverso le sue fauci, di rendersi il “me­diatore”, l’intermediario, di un percorso cerimoniale e liturgico verso una realtà più elevata. In tale funzione, è facile com­prendere come il fuoco si sia potuto presto tra­mu­tare tanto in un dio, giac­ché il suo potere appare in­negabile e straordinario, quanto in un sacerdote officiante, data la sua fun­zio­ne di interme­dia­rio, capace di tra­sferire i doni recati dalla comunità offerente dalla terra al cielo. Non è, perciò, un caso se le più antiche civiltà mostrano un’attenzione marcata per il fuoco, per il suo trat­­tamento ed il ruolo che ad esso viene riconosciuto nel contesto sociale e religioso. Tale atteg­gia­mento è ben pre­sen­te e noto, che basterà in questa sede proporre solo qualche esempio paradigmatico, dato che l’elemento igneo, sotto forme e manifestazioni diverse, è stato oggetto (e soggetto) di atten­zioni e cu­re straordinarie riscontrabili nelle diverse civiltà di lingua e tradizione indeu­ro­pea, così come in quelle del mondo semitico e/o mesopotamico più in generale. E ciò, ripeto, a guisa di sem­pli­ce richiamo alla memoria, senza perciò voler estendere la nostra riflessione su ben altre varietà et­no­cul­turali a noi meno vicine.

Possiamo incominciare, quindi, con una delle divinità più interessanti del mondo vedico e dell’India antica, ovvero Agni, che, anche sul piano etimologico ci ricorda senza dubbio il latino ignis (nonché altre voci della lessicografia indoeuropea quali il lituano ugnìs, il russo ogón’, etc., tutte derivabili da una pro­to­­-forma *H1ngw-ni-), la cui presenza ci conferma l’estensione e l’antichità, remotissima, di un co­mu­ne culto del fuoco nel dominio del mondo indeuropeo antico. Agni è sia il fuoco (anzi i diversi fuochi del cerimoniale), ove si versano le libagioni, come quella del soma, la bevanda sacra del­l’im­mor­talità, ma è in questo contesto anche la figura sacerdotale dell’in­ter­me­diario per eccel­len­za, che at­­traverso la sua lingua fiammeggiante trasferisce agli altri dèi il frutto del sacrificio, frutto, solido o liquido, che passa pro­prio attraverso la sua bocca. In questo modo, il fuoco della liturgia non solo è un’ar­ma ri­volta contro i demoni, sempre pronti ad aggredire lo spazio sacro e l’ordine co­smico, ma evoca anche un altro fuoco superiore, che trascende gli stati della creazione ed opera come forza tra­sfor­ma­tri­ce, capace di il­­­luminare la visione superiore di coloro che sono pronti ad entrare in con­tatto, at­tra­verso l’ascesi ed il rito, con una realtà trascendente. Il “calore”, il tapas, come forza interna, brucia come un fuoco e alimenta la potenza introspettiva. Il rinunciante, attraverso il suo percorso ini­ziatico e ascetico, alla sua morte non dovrà neppure essere cremato sulla pira, perché in realtà il suo corpo sarebbe già stato cotto in vita. Se Agni, pertanto, mantiene un ruolo di primissimo piano nella tra­dizione vedica, hindu ed anche buddhista, il culto romano dell’ignis Vestae, il fuoco di Vesta, merita una ri­flessione comparativa, anche perché tale tradizione ha assunto poi una sorta di valore esem­plare nella percezione della sacralità del fuoco nel mondo romano ed italico in particolare. Il culto di Vesta (nome che probabilmente si spiega come un lontano prestito dal greco ἑστία [hestía], “focolare, caminetto”), e la cui estinzione risale alla fine del IV secolo d.C., prevedeva la cura perenne del fuoco sacro, che doveva ardere ininterrottamente, sorvegliato e protetto da sacerdotesse vergini (le Virgines Vestāles per l’appunto), ad esso consacrate. Se Vesta, di fatto, rappresenta il fuoco do­me­stico, il suo culto implicava però un valore più ampio e rimandava ad un fuoco che proteggeva e rap­presentava tutta Roma. In questo senso il rito religioso e la sua valenza civile e politica si incro­ciano senza troppi mascheramenti. Sebbene sia meglio non ad­den­trarci nei meandri della storia di questa specifica tradizione rituale e cultuale, possiamo notare che at­traverso il culto dell’ignis Vestae l’e­lemento igneo veniva esaltato a partire dalla sua dimensione do­me­stica, ove il pater familias cu­sto­diva i lari e ce­le­brava il dovuto omaggio agli antenati. Ri­pren­deremo questo aspetto del culto del fuoco e del suo va­­lore pubblico e privato, anche perché proprio nel mondo romano la civiltà italica e poi quella italia­na moderna hanno trovato ispirazione per la fondazione di numerose istituzioni civili intrise di ritualità simbolica e di valore civico e politico, anche se talora si è trattato di una rein­ven­zione della tradizione in chiave profondamente reazionaria. In questo senso puntualizziamo che il ri­chiamo ai valori della Res publica antico-romana risale alla Rivoluzione Francese, e che, se il Fascismo cercherà di appropriarsi di diversi simboli e cerimoniali romani, proprio la Repubblica Ro­mana, con i suoi triumviri, avrebbe trovato una sua legittimazione morale in un modello sentito come aureo.

Ma torniamo al passato più remoto per notare che il fuoco, nella sua dimensione liturgica e politica, ha conosciuto una storia molto complessa. Ad esempio, nel contesto del poema ugaritico noto come Epopea di Aqhat, la pre­sen­za di fumo ascendente si riferiva già al focolare domestico, che è simbolo della fa­miglia. Un fo­co­lare acceso ininterrottamente indica, esattamente come in contesto romano, la vitalità duratura della famiglia. Ma anche nel linguaggio antico babilonese, troviamo che una persona “il cui braciere è spento” è un uomo senza discendenti maschi”. Tale metafora è presente anche nel­l’Antico Testamento, ove possiamo riscontrare che, in 2 Samuele 14,7, si trova un’immagine simile: “Così spegnerebbero il mio carbone rimasto e non lascerebbero a mio marito né nome né resto […]”.

Insomma, il fuoco, a partire da quello domestico, primo nucleo della società civile, che si carica di me­­morie commoventi, di storie familiari, ma anche dinastiche, assume una valenza di legame e di le­­gante collettivo, di centro irradiante a cui si connettono le diverse generazioni, quelle dei viventi, dai più piccoli ai più anziani, ma anche quelle delle susseguentisi generazioni degli antenati, senza però l’esclusione dei posteri, del futuro che incalza, come una nuova brace che entrerà nella fucina della storia, della vita e della morte, salvo che all’annientamento ni­chilista il fuoco domestico rispon­de con il calore della catena della vita e del ricordo che fonda le prospettive della posterità alla luce del lavoro di chi ha preceduto e spianato il cammino. Senza queste im­plicazioni sottilmente intessute dietro il linguaggio del fuoco come segno di una ininterrotta catena valoriale, che si fonde nella reli­gio­­ne, anche e soprattutto (per i moderni) quella ci­vile, non si comprenderebbe l’importanza della fiamma, del lume che danza, imperituro, nel giorno e nella notte. Non è un caso che, in forma più al­tisonante, alcune società antiche hanno costruito un vero e proprio ce­rimoniale dietro il fuoco per­so­nale di so­vrani e potenti, alla cui morte seguiva, come estremo rito fu­­nebre, lo spegnimento di tale fiamma, e non è neppure un paradosso che tale attitudine si trovi anche in ambito iranico, ove Parti e Sasanidi ave­vano elaborato uno speciale culto del fuoco sacro, che arriverà a stabilire l’intangibilità as­soluta di alcuni focolari, che assurgeranno al rango di supremi custodi di una fiamma sacra peren­ne­mente ali­mentata. Ma il fuoco sacro di Ahura Mazdā, la somma divinità di tali nazioni, doveva rice­vere un omag­gio imperituro, che si consoliderà progressivamente nella creazione di particolari templi atti a cu­sto­dire un fuoco in­e­stinguibile, ove addirittura solo pochi sacerdoti possono (anche oggi) accedere e per un tempo limitato, mentre il resto delle cerimonie si svolgono al cospetto di fuochi di grado minore, anch’essi di­gnificati ampia­men­te, ma con una funzione distinta. Insomma, pur nelle distinte gradazioni della stessa ce­le­bra­zione del fuoco, la fiamma della regalità si spegne con la morte del sovrano, che non è un dio e che lascia il posto al suo successore, ma non quella della di­vinità suprema, almeno nel suo tempio maggiore, in quanto tale fiamma rappresenta l’ordine co­smico e ne garantisce la perennità. Tra i popoli indeuropei, le civiltà dell’Iran, in parte conformemente ad una tradizione simile a quella dell’India antica, ma­tu­reranno un culto eccezionalmente importante del fuoco. Nello Zoroastrismo, il “fuoco”, (ātar-, in ave­stico, ātaxš o ādur in pahlavi, ossia il persiano dell’età tardo antica), diviene addirittura, nella sua più elevata qualità divina, il figlio dello stesso dio Ahura Mazdā. Anche in questo contesto il fuoco assume una cen­tralità sublime nel rito, ove si pone come un axis mundi, come una retta verticale, che si erge sino al cielo e che fa da via privilegiata per l’in­contro tra uomini e dèi lungo la strada del sacrificio, la quale per­mette ai sacerdoti qualificati di aprire una porta che li conduce ad una visione suprema, in cui l’in­contro con la sfera divina e la per­cezione dell’esistenza post mortem risulta possibile. Senza la luce e la fiamma del fuoco tutto il gio­co liturgico, con cui il collegio sacerdotale e quello divino si mimano e si intrecciano darebbe im­possibile. In tale partita, si instaura anche una dialettica tra fuoco e acqua, tra elemento igneo ma­schile ed elemento umido femminile, che scandisce un aspetto talora meno visibile della liturgia sacra e dei suoi riflessi naturali. Eppure, senza il fuoco dialogare con il divino sarebbe impos­si­bile. Ciò è vero non solo per il mondo indo-iranico, greco, romano e indeu­ropeo in generale, ma anche per quello semitico, così come in molte altre civiltà antiche e moderne, ove la luce della fiamma, sia essa stata accesa su di una minuscola candela o in un gigantesco cal­derone, evoca con il suo moto verticale e ascen­sionale non solo una salita, ma un richiamo, un messaggio, e diviene al contempo con la sua luce un polo di attrazione, un piccolo o grande centro intorno al quale si muovono potenze spirituali e pensieri profondi, spesso espressi in silenzio attraverso l’intensità dello sguardo.

Inoltre, l’associazione tra fuoco e luce, verità e idea di purificazione e rinnovamento ha conosciuto, sotto forme diverse, una certa diffusione tra il mondo antico e quello moderno. Se già la menorah, il candelabro a sette braccia, ricordava i sei giorni della creazione seguiti dal sabato e testimoniava così di un’alleanza imperitura, la profanazione del tempio ha implicato anche la perdita di ogni valenza li­turgica per tale oggetto, che al tempo stesso è però assurto a simbolo universale dell’Ebraismo. Inol­tre, altre fonti più tarde (Peregrinatio Aetheriae 24, 4), ci segnalano, sempre in contesto ebraico, la presenza di cerimonie relative all’accensione di ceri, luci e lampade che sarebbero state presto as­­sociate ai cerimoniali romani del mese di febbraio, che a Roma accompagnavano l’antica festa dei Lu­per­calia, nella quale non mancavano vere e proprie fiaccolate. Non si esclude, pertanto, che tali tra­dizioni abbiano con­tri­buito ad ispirare la creazione di ulteriori liturgie luminose, come quelle che di­stinguono la ben nota “Festa della Presentazione di Gesù al Tempio”, in Italia peraltro denominata anche come Candelora, proprio per la presenza di un rito concernente l’accensione delle luci dei ceri, accompagnato da una forte va­lenza purificatoria. L’anticipazione di tale rito dal 14 di febbraio al 2 sa­rebbe stata voluta da Giu­sti­niano, che avrebbe così spezzato ogni connessione con i precedenti Lu­per­calia, già fatti abolire da Papa Gelasio I e sostituiti per l’ap­pun­to con la Candelora stessa. Ma una festa della luce ricorre di nuovo all’altro capo dell’Eurasia, ovvero in Persia, ove troviamo la ce­lebrazione del Sadeh, che esalta proprio il “natale della luce” e che si distingue per l’accensione di grandi falò. Considerato per alcuni suoi aspetti arcaici di origine zoroastriana, tale rito popolare, am­pia­mente diffuso anche in Asia centrale, per esempio in Tajikistan, continua a resistere, nonostante l’af­fermazione, ormai millenaria dell’Islam, e ancor’oggi riscuote un enorme successo tra i giovani di diversi pae­si.

Se il culto del fuoco, in particolare quello iranico, ha suscitato molti sospetti e non a caso è stato con­­siderato come una forma di idolatria, al punto che in più fonti gli Zoroastriani sono stati definiti come “adoratori del fuoco”, noteremo che un tale giudizio derogativo non convinse un acuto os­ser­va­tore della storia umana quale Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che, nelle sue Lezioni sulla Fi­lo­sofia della Storia, ravvisava nell’Iran antico proprio il punto di svolta in cui il Weltgeist si separava defi­ni­tivamente dalla natura e considerava di conseguenza il culto della luce ignea come un’esaltazione del principio di verità, ovvero come un’astrazione simbolica e non semplicemente come una banale forma di adorazione della ma­te­ria.

Ma il lettore giustamente si starà chiedendo dove intenda portarlo con tutte queste riflessioni, con mol­ta probabilità concernenti mondi ed epoche lontane dai suoi interessi maggiori ed apparente­men­te lontane anche dal soggetto di questo libro. È presto detto (e scritto). Il nostro uso di accendere fiamme e lumini, sia in luoghi di culto, sia in luoghi pubblici e istituzionali, nei sacrari, soprattutto quelli dei caduti per la patria o per imprese ritenute di eccezionale valore per la collettività, richiama una storia millenaria. Non si tratta di un gesto banale, ma di un rito intensamente carico di significati, che pone nell’accensione della fiamma e nel suo levare multicolore, rosso, giallo, blu e con altre cromie ancora,

un messaggio di unione nel sentire dell’animo, un atto di riconoscimento verso coloro a cui il fuoco è dedicato, ma anche a noi stessi che in quella colonna ignea vediamo stabilirsi un legame tra passato e futuro, tra i vivi ed i morti, tra l’incertezza presente e la fiduciosa speranza verso un futuro migliore. Ogni lume è di fatto una fiamma di speranza, ogni candela una molecola di luce che illumina innan­zitutto l’interiorità di chi l’accende, qualunque sia il suo stato d’animo. Per questo chi scrive si stupì e mareggiò molto quando, nel 2017, nell’anno delle molteplici strombazzature rievocative della sconfitta di Caporetto, volle andare pro­prio a Kobarid (ossia la città slovena corrispondente alla Ca­po­retto della battaglia) e rimase stupito nel prendere atto che nel gigantesco sacrario dei caduti italiani, –mol­tis­simi erano ragazzi giovanissimi morti asfissiati alla prima salva di gas sparata dall’eser­cito tedesco–, non vi era neppure un lumino. Non parliamo ovviamente di una fiamma viva il cui costo sarebbe stato di certo “esorbitante”. Quell’assenza era la prova di un vuoto, morale, etico, storico, civile. Tanti documentari, film, dibattitti. Non un gesto semplice di pietas e di memoria umile, ma vera.

Nel rievocare la grande tradizione dei lumini del 9 febbraio, mese in cui diverse tradizioni religiose avevano già voluto esaltare una festa delle luci, Mattarelli suona un corno, forse come Rolando a Roncisval­le. Non perché il nemico sia alle porte, ma perché il nemico è dentro di noi, e si annida nel­l’abitudine a disprezzare gesti antichi, gravidi di significato, sostituibili e/o sostituiti con un fugace SMS. La mia speranza è che con questo messaggio una tradizione morente possa trovare nuovi cultori e, nella speranza di tale ri­sultato, mi consolo provando una certa malinconia, che si tramuto in una sorta di nostalgia, paradossalmente non del passato che non c’è più, ma di un futuro che non vedrò, ma che potrebbe esserci.


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