Ventitré anni sono trascorsi dalla scomparsa di Raffaele Ciriello, della sua voce vibrante, dello sguardo acuto, della sua capacità di osservare il mondo con onestà e raccontarne le tragedie senza filtri. Ventitré anni senza la sua dedizione al giornalismo e alla fotografia, strumenti con cui riusciva a trasmettere al mondo le sue “cartoline dall’inferno”, resoconti crudi e autentici dai teatri di guerra. Le sue immagini e i suoi reportage avevano il potere di scuotere le coscienze, di rendere visibile l’invisibile, di dare voce a chi non ne aveva.
Quel racconto coraggioso si interruppe bruscamente il 13 marzo 2002 a Ramallah, in Cisgiordania. Raffaele aveva 42 anni quando fu colpito a morte da cinque proiettili sparati da un militare di guardia su un carro armato. Stava documentando gli eventi con una piccola telecamera palmare, testimone silenzioso di una realtà che pochi osavano raccontare. Non ebbe scampo. Morì sul colpo. E per chi premette il grilletto, non ci fu alcuna conseguenza. Nessuna giustizia, nessuna responsabilità accertata, solo il silenzio di un’inchiesta mai risolta.
Nato a Ginestra, in Basilicata, Ciriello aveva intrapreso gli studi di medicina prima di scegliere di seguire il richiamo della fotografia. Il suo obiettivo non si limitava a catturare immagini, ma si faceva strumento di denuncia, sguardo impietoso sulle contraddizioni e gli orrori della guerra. Il suo sacrificio ci ricorda quanto sia impervio il cammino verso la verità, un percorso disseminato di ostacoli, silenzi e minacce. Raccontare i conflitti senza censure significa sfidare poteri forti, significa mettere in discussione equilibri scomodi. Chi lo fa sa di rischiare, perché troppo spesso la verità ha un prezzo altissimo.