80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

La guerra non ha il volto di donna

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Anche questo 8 marzo 2025 è una giornata impegnativa. Noi, le donne, pensiamo che lo sia: ci propone nuove sfide nuovi compiti nuove responsabilità. Ci fa sentire che è necessario mettere in campo la nostra forza collocando la storia individuale di ognuna non solo in rapporto con quella di altre donne ma con il contesto e le vicende che riguardano il nostro Paese e il mondo intero che è in pericolo, sovrastato da “una sorta di terza guerra mondiale a pezzi”, come ha detto Papa Francesco qualche tempo fa; da una estesa questione ambientale che devasta il pianeta (la terra, il mare e tutti gli esseri viventi). È già accaduto che la nostra forza abbia cambiato la società e la politica: deve succedere di nuovo oggi. Pensiamo al decennio degli anni ’70, strepitoso e formidabile ma anche molto doloroso. Le donne conquistano tante leggi che cambiano la loro vita. Sono le donne, come ricordava spesso Enrico Berlinguer, “la prima rivoluzione”: rivoluzione perché con loro è cambiata la società, la cultura le relazioni tra le persone. Un’esperienza e un principio molto importanti anche per oggi. Quegli anni hanno mostrato come le donne possono davvero fare la differenza contribuendo in gran parte alla conquista di una legislazione importante (il nuovo diritto di famiglia, il divorzio la riforma sanitaria, la legge di parità nel lavoro, la legge 194: Norme sul valore sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza, altre ancora). A tre anni dalla guerra di aggressione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, e dagli sviluppi negativi e preoccupanti che abbiamo davanti, le stragi di innocenti a Gaza, l’arrivo del ciclone devastante Trump e tutto il resto è necessario e urgente parlare e costruire la pace: interrompere subito la corsa al riarmo e iniziare a costruire un nuovo ordine internazionale scegliendo il dialogo e la cooperazione solidale. Nel mondo oggi sono attivi oltre cinquanta conflitti, il numero più grande dopo la seconda guerra mondiale. (Global peace index 2024, dall’Institute for Economics & Peace). La spesa militare mondiale è aumentata per il nono anno consecutivo raggiungendo il massimo storico di 2.443 miliardi di dollari nel 2023 (+6,8% rispetto al 2022). Per la prima volta dal 2009, le spese per l’acquisto di armi e servizi militari sono aumentate in tutte e cinque le regioni geografiche definite dal SIPRI, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, con aumenti particolarmente elevati in Europa, Asia, Oceania e Medio Oriente. Attualmente i Paesi che dichiarano di possedere armi atomiche sono: Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Pakistan, India, e Corea del Nord. A parte si colloca Israele, che ufficialmente non ha mai né confermato né negato di possedere armi nucleari, …
Scrive Michele Serra per la manifestazione del 15 marzo: Il “si vis pacem para bellum” è da sempre il proclama degli imperialisti ai quali la guerra, alla fine, conviene: non la fanno ma la fanno fare agli inermi. Se c’è un momento in cui la diseguaglianza tra gli esseri umani si manifesta al massimo grado e con la massima crudeltà, questo è la guerra … ma abbiamo mai davvero sperimentato la forza della pace? È il momento per l’Europa prima che sia troppo tardi. …la Federazione Europea è l’unica garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano volgersi su una pacifica cooperazione in attesa di un più lontano avvenire in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo…” (Altiero Spinelli Eugenio Rossi Edmondo Colorno dal Manifesto di Ventotene 1941).
C’è una riflessione delle donne e nei movimenti femminili e femministi che viene da lontano. Provo a indicare alcune “paroledidonna” a proposito di pace. Di Cassandra, la donna antica rivisitata e fatta rivivere dalla scrittrice tedesca ChristaWolf : “Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere(da Cassandra Christa Wolf edizioni e/o 1988 pag.132)Virginia Woolf, nell’agosto del 1940, scrive un saggio breve dal titolo: Pensieri di pace durante un’incursione aerea. Sono pensieri che nascono in presa diretta, mentre gli aerei della Wehermacht tedesca scorrazzano sopra il cielo di Londra, scaricando il loro micidiale paniere di bombe. Virginia siinterrogasucomesiapossibile“lottaresenzaarmiperlalibertà”etrovasubitolarisposta: “Possiamo lottare con la mente; fabbricare delle idee”. E aggiunge: “Lottare mentalmente significa pensare contro la corrente e non a favore di essa”. … La sua riflessione si sofferma poi sulla parola “disarmo”, considerata condizione imprescindibile per la pace, consapevole che il “disarmo” va preparato gradualmente, esige una trasformazione sociale, economica e delle coscienze, far mettere radici ad una forma mentis alternativa a quella dominante: la guerra è una follia degli uomini, uscire dalla logica patriarcale – aveva sostenuto qualche anno prima, nel saggio Le tre ghinee, è togliere ossigeno allo spirito che conduce alla guerra. “Fuori la guerra dalla storia”, uno slogan che appare spesso nelle iniziative delle donne per la pace : propone di sostituire all’ordine della forza e del dominio, che genera guerra e morte, quello dell’amore e della cura che genera vita. In “Da Andromeda a Cassandra” Chiara Ingrao e Giancarla Codrignani inEcuba e lealtre donne il genere la guerrariflettevano a cavallo tra i temi della pace della guerra e del femminismo alla fine degli anni ‘80. Ci raccontavano di come si sia sviluppata una complicità delle donne con la guerra (Ettore a Andromaca: tu fai figli io la guerra) fino alla caduta di quel patto con le due guerre mondiali e soprattutto conle bombe sganciatedagli USAsu Hiroshimae Nagasaki aguerra finita. La conseguente messa in discussione di categorie maschili del conflitto praticando una conflittualità “altra” non costruita sui parametri della guerra e della morte ma coniugandola all’interdipendenza alla solidarietà e cooperazione.
Svetlana Aleksieviéc, giornalista bielorussa Premio Nobel per la Letteratura nel 2015, per due anni, ha raccolto le testimonianze di donne che, per lo più volontarie, hanno combattuto all’età di diciotto o diciannove anni per difendere la loro terra dall’invasione di un nemico spietato. Avevano taciuto per quaranta anni, cercando di dimenticare quella loro esperienza di donne in guerra. Nel giugno del 1941 quando l’avanzata di Hitler verso Oriente comporta per l’URSS la perdita di milioni di uomini, centinaia di migliaia di donne e ragazze, vedendo il nemico arrivare alle porte di Mosca, imbracciano le armi. Sono più di un milione quelle che vanno a sostituire gli uomini come soldati di fanteria, addette alla contraerea e carriste, geniere sminatrici, aviatrici, tiratrici scelte oltre che come infermiere, radiotelegrafiste, cuciniere e lavandaie. Raccontano la guerra “al femminile” – dice l’autrice – che “ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti, estensione dei sentimenti e anche parole sue. … La guerra per le donne è un’altra cosa rispetto ai maschi. Mi hanno colpito le parole di una ex soldatessa sovietica che dopo una battaglia è andata a vedere il campo dove giacevano i morti e i feriti. Diceva: c’erano ragazzi, bei giovani, russi e tedeschi, mi dispiaceva ugualmente per tutti quanti. La morte e il dolore non conoscono differenze tra gli esseri umani. Ma lo sanno solo le donne. Un maschio raramente ragiona in simili termini. Le donne sono legate all’atto di nascita, alla vita. Gli uomini invece sono lontani dalla vita.” (da “D” La Repubblica 23 aprile 2016 – Intervista a S. Aleksievic). Racconta ancora Svetlana di quanto le ha raccontato una donna combattente: “…Posso raccontare come ho combattuto e sparato ma quanto e come ho pianto non posso. Questo resterà non detto. So solo una cosa: in guerra l’uomo si trasforma in un essere spaventoso e oscuro”. Svetlana consegnò all’editore il manoscritto di quello che sarebbe poi diventato il libro “La guerra non ha un volto di donna“. Ma il libro, per interposizione della censura fu pubblicato solo anni dopo. Non conoscevo bene questa storia: mi sembra forte e adatta ai tempi tragici ed oscuri che annunciano possibili altre guerre. Anche perché la cultura della guerra genera violenza diffusa pericolosamente nella società e nella scuola: contagia le giovani generazioni mentre continuano femminicidi e aggressioni alle donne. Anche quest’anno i femminicidi superano il centinaio, la maggioranza commessi in ambito familiare/affettivo in gran parte dal partner o ex partner. Da anni ogni 70 ore viene uccisa una donna: segno che non hanno avuto effetto leggi e politiche messe in atto. Quest’anno sono stati almeno tre i casi in cui il mancato funzionamento del braccialetto elettronico ha portato alla morte di altrettante donne. Aumentano le vittime straniere, ma diminuiscono gli autori di femminicidio di nazionalità non italiana. Il 45,8% dei femminicidi con vittime straniere sono commessi da italiani nel 4% dei casi; tre le italiane vittime di femminicidio uccise da uno straniero. In Italia solo l’11% delle donne che subiscono violenza denuncia l’accaduto, di queste quasi il 40% non parla con nessuno di quello che ha subito, spesso per vergogna o anche perché le situazioni vissute sono ritenute la normalità anche nell’anno di due sentenze fondamentali, quelle per le uccisioni di Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin, e al caso Gisèle Pelicot che sembra allargarsi anche alla figlia. Questo 8 marzo 2025: viene da lontano e ce lo ricorda un piccolo frammento di storia. Nel 1977 le Nazioni Unite proclamano ufficialmente l’8 marzo giornata internazionale della donna. La violenza contro le donne si celebra in un’altra data riconosciuta anni dopo, il 25 novembre 1999 per ricordare l’assassinio delle sorelle Mirabal (Siamo nel 1960 è il 25 novembre. C’è una “rivoluzione” in atto nella Repubblica Dominicana contro la dittatura (1930-1961) di Rafael Trusjillo. Patria, Minerva e Maria Teresa sono tre sorelle attiviste politiche che vengono uccise dopo violenze e torture, stupri. La quarta sorella Adele sopravvive miracolosamente). Sul perché della scelta dell’8 marzo, invece, non c’è ancora univocità. Di sicuro la nascita della Giornata internazionale della Donna è legata alla storia del movimento per i diritti femminili e femministi (primo fra tutti il diritto di voto) e alle lotte per il lavoro e contro lo sfruttamento a partire dall’inizio del 1900 con uno slogan che fa il giro del mondo: “bread and roses”. Nell’incendio della fabbrica Triangle, New York 25 marzo 1911 (Asch building vicino a Washington Square Park) Muoiono bruciate vive o lanciandosi dalle finestre 150 donne quasi tutte immigrate, almeno 50 italiane. Cinquecento ragazze tra i 15 e i 25 anni, un centinaio di uomini lavoravano in una camiceria negli ultimi tre piani del palazzo alle dipendenza di Isaac Harris e Max Blanck.
Centinaia le ragazze e le bambine italiane che lavoravano lì, sfruttate e molte delle quali morirono bruciate nel pomeriggio del 25 marzo 1911 perché erano chiuse dentro a chiave dall’esterno e allo
scoppio dell’incendio sono rimaste intrappolate nello stanzone dove lavoravano. Almeno 39 identificate “da un anello, da un frammento di scarpa…” più di dieci ufficialmente disperse (da G.Stella Corriere della sera 2004). Ci fu un processo dal quale i proprietari uscirono assolti ricevendo “un risarcimento di 445 dollari per ogni operaia morta” mentre alle loro famiglie andarono solo 75 dollari per ciascuna. L’anno prima un grande sciopero durato mesi aveva strappato un orario di lavoro di 52 ore (prima era di 60), “ma lì non era applicato, straordinari sottopagati, spazi ridotti, sorveglianza feroce…il posto giusto per gli ultimi degli ultimi: gli ebrei e gli immigrati italiani. ibidem).
Migliaia di persone parteciparono ai funerali delle operaie uccise dal fuoco. Quella tragedia produsse un’accelerazione alla riforma della legislazione del lavoro negli Stati Uniti e rafforzò, nel tempo, la Giornata internazionale della Donna istituita l’anno prima a Copenaghen (promossa da Clara Zetkin e Rosa Luxemburg). L’8 marzo fu celebrato in varie parti del mondo e anche in
Italia durante e dopo la prima guerra mondiale. Le celebrazioni furono interrotte durante il fascismo e ripresero durante la lotta di liberazione nazionale. Il primo 8 marzo dell’Italia liberata fu preparato dall’UDI nel 1946.
Ancora oggi, come ci racconta un rapporto dell’ISTAT e del CNEL, “donna, giovane, meridionale, straniera, madre, poco istruita: se sei in una o più di queste definizioni in Italia significa essere
lavoratrice sottopagata, sfruttata, disoccupata o inattiva perchè scoraggiata” e perchè ancora in questo paese un figlio non è considerato una risorsa ma solo un costo. Sono, nell’insieme, quasi otto
milioni le donne che non lavorano: una risorsa, straordinaria sprecata. Quello delle donne è un doppio si: si al lavoro, necessario per vivere e anche si alla scelta della maternità. Il doppio si

contiene il desiderio e l’ambizione di ricongiungere produzione e riproduzione: ciò che la storia e le culture a dominanza maschile ha separato. La paternità non è più garantita dal destino femminile e oggi gli uomini, se vogliono diventare padri, devono confrontarsi con la scelta delle donne. La riproduzione non è una questione femminile ma di tutti, compresi i governi e le istituzioni che devono rendere possibile questo doppio si delle donne.

(Nella foto di apertura la manifestazione per l’otto marzo del 1972 a Campo de’ Fiori a Roma e, all’interno del testo, a seguire Svetlana Aleksieviéc e l’incendio nella camiceria)


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