Sudan, l’ultima settimana la più grave dei 5 mesi di guerra: 20 mila morti

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Safa, tre anni,  è arrivata al presidio di emergenza del Salam Center in fin di vita. Aveva una lesione da proiettile. Immediatamente assistita e curata, ora sta meglio ed è stata dimessa qualche giorno fa.
«Safa tornerà da noi per il follow-up , a lei è andata bene. Non è stato lo stesso per centinaia di altri bambini coinvolti in questo conflitto» dicono da Salam Center, l’ospedale di Emergency a Khartoum dove da oltre un mese un Centro di chirurgia d’urgenza e traumatologia.
Come Safa anche  Mariam e Rayan, che  hanno tredici e sette anni, sono salvi grazie ai medici di Emergency.
Queste tre giovani vite messe a repentaglio dalla guerra civile in Sudan sono solo un esempio di quanto crudele e feroce possa essere il destino di bambini e tanti altri innocenti che rischiano  quotidianamente di morire.
Di piccoli e adulti con ferite da armi da fuoco in queste settimane nel Centro di chirurgia di urgenza e traumatologia di Emergency a Khartoum, aperto il 17 agosto nel complesso del già esistente Centro Salam di cardiochirurgia, ne sono arrivati già a centinaia.
«Durante le prime fasi del conflitto le attività dell’ospedale è stato intensificato per far fronte all’afflusso incessante di feriti causato anche dall’impossibilità da parte degli altri ospedali di riceverli. Poi è stato creato un vero e proprio presidio di urgenza» è il racconto di chi è sul campo.
Da settimane le sale operatorie  funzionato senza sosta, spesso per oltre 12-15 ore al giorno.
Dall’apertura a oggi sono quasi 400 i pazienti ricevuti e curati solo al Salam center.
«Mentre Rayan prosegue le cure e si sta rimettendo, non riusciamo invece a rintracciare la famiglia di Mariam per poterla dimettere. Tuttavia la bambina ha trovato un supporto nella dottoressa Dalia, una delle operatrici sudanesi che continuano a lavorare nell’ospedale, e che si sta prendendo cura di lei con l’affetto di una mamma» spiega il dottore che si sta occupando dei due piccoli pazienti.
La situazione in Sudan è in quotidiano peggioramento.
A cinque mesi dallo scoppio degli scontri tra l’esercito regolare (Saf) e i miliziani delle Forze di intervento rapido (Rsf), fino ad allora alleati nella giunta militare che governava il paese, la crisi sta velocemente raggiungendo la gravità temuta dai conoscitori del paese e descritta dal segretario generale dell’Onu come “potenzialmente catastrofica”.
I combattimenti, dapprima concentrati nella capitale, Khartoum,  dove non si sono ma interrotti con la distruzione di interi quartieri residenziali sia ad opera  dell’aviazione militare che dall’occupazione delle milizie, si sono ben presto estesi al Darfur e altre regioni.

È sotto assedio el-Obeid, capitale del Nord Kordofan e città strategica per le rotte commerciali interne. Vi scarseggiano ormai cibo, acqua e carburante, con un impatto terribile sulla popolazione intrappolata. Ma anche sul rifornimento dei mercati nel resto del paese.

Nel Sud Kordofan – dove è ancora attiva la fazione dell’ Splm-Nord guidata da Abdel Aziz al Hilu – si sono riaccesi i combattimenti con il nemico di sempre, l’esercito regolare. Apparentemente il conflitto è risorto per proteggere la fuga di migliaia di persone che cercano rifugio nei Monti Nuba, la zona controllata dal movimento. Il quale, tuttavia, ha colto l’occasione per provare a estendere il proprio territorio.

Il quadro è ancor più complesso nello stato del Nilo Azzurro, dove non sono mai cessate le scaramucce tra le due fazioni dell’Splm-Nord: quella guidata da Malik Aggar – ora vicepresidente del Consiglio sovrano, la maggiore istituzione sudanese – e quella capeggiata da Abdelaziz al-Hilu. Nelle ultime settimane il quadro si è di molto aggravato, tanto che migliaia di persone hanno ripreso la via dei campi profughi della limitrofa Etiopia, da cui erano tornati dopo la caduta del regime islamista del Partito del congresso nazionale (Ncp), guidato dal deposto presidente Omar El-Bashir, nell’aprile del 2019.

Intanto in Darfur, come era prevedibile, i combattimenti hanno assunto i connotati etnici che avevano già caratterizzato il conflitto nella regione nel primo decennio di questo secolo. In queste settimane le Rsf hanno attaccato in modo particolare il gruppo dei Masalit, agricoltori stanziati nel Darfur occidentale, mettendo a ferro e fuoco la capitale, Geneina, uccidendo il governatore e numerosi altri leader comunitari e tribali, insieme a migliaia di normali cittadini, tra cui numerosi bambini. I racconti del massacro hanno evocato il genocidio dei tutsi in Rwanda, nel 1994.

Dal Darfur occidentale i combattimenti si sono estesi alle altre parti della regione. Sono stati presi di mira soprattutto i mercati e i campi in cui risiedevano ancora centinaia di migliaia di profughi dello scorso conflitto.

A Khartoum i combattimenti non si sono mai completamente interrotti, in una dinamica perversa per cui le Rsf occupavano i quartieri residenziali, per razziarli ma soprattutto per farsi scudo della popolazione; mentre l’aviazione militare li bombardava incurante dei danni ai civili e alle infrastrutture della loro stessa capitale.

Tutto ciò avviene nonostante le numerose tregue cui le due parti combattenti si sono impegnate a mantenere, per permettere l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione stremata.

Negli ultimi giorni, dopo durissimi combattimenti, le Rsf hanno occupato il comando della Central Reserve Police, l’ultima di numerose sedi istituzionali cadute nelle loro mani.
La crisi ha finora provocato almeno 20 mila morti fra i civili, più di 5mila vittime solo nel massacro di Geneina, di cui almeno un migliaio bambini. A questi vanno aggiunti migliaia di feriti, decine di migliaia di traumatizzati, centinaia di ragazze e di donne stuprate.

I profughi sono ormai almeno 3,5 milioni, un milione  dei quali hanno cercato rifugio oltre confine, ingolfando paesi come il Ciad e il Sud Sudan, già affollati di rifugiati e sfollati e gravemente instabili, tanto da rischiare di non farcela ad affrontare problemi aggiuntivi a quelli che già hanno.

Secondo stime delle organizzazioni internazionali competenti, ormai 25 milioni di sudanesi dipendono dagli aiuti umanitari internazionali per la sopravvivenza.

Le trattative per garantire almeno corridoi umanitari sono bloccate, mentre i negoziati per trovare una soluzione alla crisi non sono mai andati oltre provvisorie tregue di “cessate il fuoco” infrante nel giro di poche ore.
L’ultima
settimana è stata la più sanguinosa da quando 5 mesi fa è scoppiata questa feroce guerra civile oscurata.  Un vero e proprio inferno che vive tutta la popolazione del Sudan.


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