“Io capitano” Quando il cinema è commozione civile

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Ho avuto la fortuna e il privilegio di vedere Io capitano, in anteprima assoluta nei primi giorni di marzo. Matteoaveva appena finito di montarlo e lo stava vedendo anche lui per la prima volta. Lo aveva definito un film di formazione, per cui, approfittando della rete di amicizie creatasi negli anni grazie ai concorsi nelle scuole promossi da Articolo 21 sul diritto all’informazione, avevo invitato alla proiezione una dozzina di studenti di due licei romani.

Due settimane prima c’era stata la tragedia di Cutro, la tensione era alle stelle e i partiti si rinfacciavano i rispettivi fallimenti delle politiche d’immigrazione: in quel clima di caccia allo scafista, un film che lo presentasse come un eroe, sarebbe stato certamente massacrato, anche perché c’era da aspettarsi che solo in pochi lo avrebbero difeso. Dissi scherzosamente a Matteo che nonostante tutti fossero peccatori avrebbero lo stesso scagliato la prima pietra e, forse, anche la seconda! Soltanto su una persona avrebbe potuto fare affidamento: Papa Francesco.

D’altronde c’erano già state delle avvisaglie eloquenti. Fino ad allora tutti i film di Matteo avevano potuto godere del sostegno dell’UE: questa volta glielo avevano negato senza dare spiegazioni. Inoltre il film era destinato ad andare al Festival di Cannes dove Matteo era di casa per essere stato premiato tre volte: eppure, inaspettatamente, e senza darne motivazione, il film non era stato accolto. (Anche in Francia parlare d’immigrazione è come parlare di corda in casa dellimpiccato).

Ciò nonostante, alla fine della proiezione, tutti i timori erano spariti grazie alla carica di autenticità che ci aveva investiti: una carica così potente che avrebbe stroncatoogni tentativo di usare il film per scopi di bassa cucina politica.

Io capitano è un susseguirsi poetico di meraviglia e orrore, e la commozione che suscita lodissea di Seydou non è intima, non si esaurisce nel dramma dei protagonisti; è soprattutto una commozione civile, la stessa che proviamo di fronte al destino inesorabile che sovrasta Sacco e Vanzetti nel film di Giuliano Montaldo. A questo proposito, c’è un aforisma di Hegel che potrebbe esseremesso in esergo a Io capitano: “La politica è la tragedia del nostro tempo perché gli uomini soggiacciono a essa come gli antichi greci soggiacevano al fato”.

È comprensibile che si sia portati a scrollarsi di dosso l’angoscia che suscita la via crucis attraversata da Seydou – il deserto, la tortura, il naufragio – sublimandola nella dimensione della favola fino a tirare in ballo “Le avventure di Pinocchio” laddove il paragone più calzante sarebbe con il racconto-inchiesta di Jack London

Il popolo degli abissi, scritto dopo aver vissuto per mesi nell’East End, il quartiere più miserabile della Londra del primo novecento, immedesimandosi, come Garrone, nella vita dei suoi abitanti.

Articolo 21 sta organizzando, per le prossime settimane, una visione di Io capitano in alcuni licei romani dove gli studenti potranno discutere con Seydou, Moustapha e Matteo al termine della proiezione.


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