Le donne non “ci stanno”

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Ancora desta stupore. Forse a chi legge i toni scandalizzati della notizia pubblicata da qualche giornale on line. Ma non a noi, noi non ci stupiamo più.  Per noi avvocate che stiamo lì dentro praticamente ogni giorno, che le abbiamo accanto, e guardiamo la loro paura negli occhi quando si siedono lì  davanti al bancone del giudice, e ascoltiamo la loro voce che trema e si blocca in gola alle domande che vengono loro rivolte come spari di una mitragliatrice. A noi non fa più specie.

Noi lo abbiamo vissuto dozzine di volte.
Oramai dentro i tribunali, quando si parla di violenza contro le donne non ci meraviglia più nulla.
Siamo talmente aduse agli scempi giuridici del “se lo è in qualche modo meritato” che la nostra indignazione oramai è il corredo della nostra professione.
La portiamo a studio con noi e la condividiamo con le nostre assistite mentre ci chiedono, fra le lacrime, perché devono essere trattate così.
Quando ci gridano che se lo avessero saputo prima, non avrebbero mai denunciato.
Perché in Italia la giustizia è ancora contro la donna e non si è fatto un passo avanti, nonostante i tanto proclamati codici rossi e le attivissime commissioni politiche.
Ancora risuona quel “Se fossero state brave ragazze, sarebbero rimaste a casa a quell’ora…” pronunciato durante il processo per lo stupro del Circeo.
Sono trascorsi cinquanta anni,  eppure accade ancora.
Nel 2019 a Torino una ragazza incontra un amico e si intrattiene con lui in un  bar a bere e ridere insieme.
Quando la donna va in bagno, si fa accompagnare dal compagno di serata perchè conosceva bene il locale  per averci lavorato.
La ragazza viene abusata sessualmente, ma secondo la Corte di Appello era “alterata per un uso smodato di alcol .. e provocò l’avvicinamento del giovane che la stava attendendo dietro la porta”.
Addirittura in sentenza si legge che’imputato “non ha negato di avere abbassato i pantaloni della giovane”, ma, sempre secondo i giudici di secondo grado: “nulla può escludere che sull’esaltazione del momento, la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura”.
Infine, l’apoteosi dello stereotipo.
Si legge in sentenza che “lasciando la porta socchiusa e chiedendo aiuto al ragazzo, avrebbe indotto il ragazzo a osare”.
E dopo la condanna in primo grado a 2 anni 2 mesi e 20 giorni di reclusione, oggi l’imputato viene assolto.
Nulla di nuovo per noi che ne abbiamo letti a dozzine di pregiudizi sessisti, nelle archiviazioni richieste dai PM che non ritengono ” credibile ” la persona offesa, nelle assoluzioni dei tribunali che si concentrano sul consenso implicito di una donna che con le proprie condotte fa presumere  una disponibilità sessuale, negli affidamenti ai servizi sociali perché la madre aliena i figli contro il padre.
La donna nel nostro Paese non è vittima del suo stupratore o del compagno violento, bensi del suo genere.
E di una subcultura misogena che la considera infida e bugiarda, e che arriva ad annullare il valore del suo espresso SI ad un rapporto intimo.
Attente noi, dunque.
Non usciamo la sera, non beviamo, ma neppure scherziamo o ridiamo, neppure con un amico.
Perchè potremmo indurre chiunque a credere di “starci” e farci legittimamente usare violenza.

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