Rileggendo Biancamaria Frabotta: Quartetto per masse e voce sola

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La morte  di Biancamaria  Frabotta il 2 maggio scorso mi ha portato a riprendere in mano “Quartetto per masse e voce sola”, come se un testo definito autobiografico potesse restituirla un po’ e attenuare il dispiacere della perdita.  Già nell’incipit l’autrice pone la sottile distinzione fra autoritratto e autobiografia , come per avvertirci del particolare carattere di questo suo descrivere sé stessa: “Le parole non si prestano volentieri all’impromptu  dell’autoritratto, meglio i pennelli, una videocamera, una digitale con il suo rapido clic, ultima labile impronta di un’emozione lirica che in passato non a caso scelse il sonetto come misura del proprio sé. Un autoritratto in terza persona può esserci d’aiuto …”. Un’autobiografia  in prima persona il suo testo, che tiene conto della memoria, avvertendo però che “… la memoria è un pittore cubista che mette insieme le due facce di ogni cosa, l’eternamente presente e l’eternamente fuggito, di fronte e di profilo, né si cura di colmare le  lacune, i fili spezzati delle emozioni che allinea sulla tela per schedarle, più che per rappresentarle”. Il breve testo di 118 pagine ha una prosa spessa dove si affonda nella densità delle metafore, sostenute  talvolta da versi dell’autrice. Tutto è pensato ed è un racconto di vita, sulla lettura e la scrittura,la poesia, la letteratura e la politica.

In un’intervista di Luigia Sorrentino all’uscita del libro nel 2009, in “La poesia e lo spirito”,  Frabotta avvertiva: “… Il titolo Quartetto non è un vizio estetizzante. Si tratta di quattro variazioni su un tema centrale, l’iniziazione alla poesia connessa al profondo rapporto che spesso le donne hanno con la madre. O meglio ancora la loro esecuzione su quattro diversi strumenti. Quattro generi letterari, se vogliamo: la memorialistica, personale e in qualche parte anche generazionale, la critica letteraria, il racconto di viaggio, il saggio etico – politico. Il collante di tutto ciò  è un autoritratto  “onesto” se possibile, con un io fittizio, ma responsabile. Un vecchio slogan del femminismo degli anni Settanta ricordava che il personale è politico, nell’esistenza delle donne”. E già questa affermazione mi sembra l’estrema sintesi di un lavoro ricco in cui, pur nella sua brevità, si aprono mille rivoli di riflessione e di memorie. Ci racconta per brevi pennellate la nascita, la famiglia, il padre, la madre le amate sorelle. Il precoce piacere della lettura istillatole dal padre, che paradossalmente amava i libri, ma non li leggeva, li comprava per lei e forse per questo sentì l’aspettativa verso di lei di un riscatto paterno da questo suo vezzo. Anche attraverso le letture già si affacciava il problema dell’identità , dei personaggi e degli autori o autrici, con un’identità  da scoprire talvolta dietro i nomi espressi con sigle enigmatiche. Problema dell’identità che  comincia ad assillarla negli anni dell’università, tema allora dilagante anche nel femminismo e nel lavorio dell’autocoscienza e che le si porrà anche rispetto alla scrittura. Opta per la parola “affemminata” nella plaquette che pubblica nella collezione dei libricini di Geiger: “Non come te poeta io sono/ io sono poetessa e intera non appartengo a nessuno”. A diciotto anni il desiderio di fare l’attrice, la contraddizione della gestione del suo fascino, si scopriva un “naturale talento da allumeuse”. Intelligente e bellissima dovrà anche in seguito fare i conti  con  il suo essere “troppo” “Essere considerata troppo donna, troppo femminista, troppo intelligente, troppo viscerale, troppo accademica, poco accademica troppo bella, perfino troppo alta. Insomma ero ‘troppo’ tutto”. Attribuisce la sua formazione oltre a un notevole lavoro di scavo all’influenza del padre, dei sofisti  e di un prete, assiduo consigliere di letture, senza le quali non avrebbe incontrato il Sessantotto che non rinnega e definisce “il Sessantotto dei rigori e dei doveri che molti trascurano nelle frettolose rievocazioni, dimenticando che noi discendevamo da una generazione di sopravvissuti e di sconfitti. E le contraddizioni fioccavano nella mescolanza di quel certo monachesimo che in chiave separatista anche il femminismo incoraggiò e un’impetuosa primavera tribale e felicemente anonima che ricordo senza l’ombra del rimpianto. In piena luce”. Racconta dei primi lavori Il rumore bianco, La pianta del pane, Gli eterni lavori perché intanto aveva scelto la poesia come una “compagna di viaggio che scenderà alla mia stessa stazione”. Avvertendo però “Sono sempre vissuta in coppia e resto fedele a chi non mi opprime con la gelosa ossessività di un amore esclusivo, compresa la poesia cui chiedo la libertà di andare a zonzo per strade complanari: un romanzo, una trilogia teatrale, radiodrammi lunatici, svariate prose, saggi critici, studi. E’ del resto la “varietà delle cose – per dirla con Kafka – che variamente si girano nelle infinite varietà di quell’unico momento in cui viviamo”. La Viandanza è “una raccolta, per così dire , di mezza età”, ma quello di viandanza è un concetto fondamentale nella sua vita, rispetto alla quale sente però il bisogno di dire che “l’ago della bussola della mia viandanza fu sempre orientato verso la stella polare fissa nel cielo di mia madre”. Concetto, quello di viandanza,  nato già quando intravedeva la striscia azzurrina del mare dalla casa dei nonni e il rumore delle onde la accompagnava al sonno, ma che poi “incarnò l’utopia di in mito ben collaudato” che l’accompagnava nei numerosi , forse troppi, viaggi della sua vita e che si contrapponeva in qualche modo al concetto di sedentarietà. Concetto cui diede un senso definitivo e più vero nella sua vita proprio durante un viaggio, incontrando lei turista lo sguardo invidiosa, ma anche orgoglioso di una nativa della foresta amazzonica.

Nella seconda parte del lavoro parla del suo complesso rapporto  con la poesia e lo mette in relazione anche con Roma, la città in cui è nata e vissuta e di questo sfondo ha bisogno anche per parlare dei poeti contemporanei. Nel  capitolo “Una pluralità di poeti” mette a confronto l’ambiente milanese della poesia contemporanea, che a partire da Sereni passando per Pagliarani con La ragazza Carla, arriva fino a Cucchi e De Angelis e consegna opere mature e importanti, con l’ambiente romano, povero di artisti autoctoni come Belli, Cardarelli e Vigolo e  dove invece sono molti i poeti “romanizzati, che però non sono riusciti a dar vita a una vera scuola” forse, le pare, perché Roma è sempre stata una città sfuggente, inafferrabile, indisciplinata, inclassificabile e anche i suoi poeti non possono sfuggire a questa eccezionalità. La seconda parte del testo si chiude con un omaggio a Amelia Rosselli, sulla quale Frabotta teneva anche un corso alla Sapienza, ripubblicando “Elogio del fuoco”, elogio funebre che lesse il 16 febbraio del 1996 davanti alla sua bara alla Casa della Cultura a Roma. Nella terza parte del lavoro  Frabotta ci parla ancora del viaggio, dell’irresistibile tentazione dell’erranza. Molto a proposito cita che a metà degli anni Novanta, in “un empito di rinascita femminista … entro i parametri della lezione postmoderna, Rosi Braidotti elaborava la sua teoria del Soggetto nomade, non più cosmopolita, o internazionalista … Ma transazionale, postcoloniale, biotecnologico”. Tuttavia nell’introduzione al testo Anna Maria Crispino non può fare a meno di richiamare all’attenzione il nuovo clima politico di quegli anni con “il senso comune di destra dilagante in Italia, la tragedia delle guerre jugoslave seguito al crollo del comunismo, la xenofobia scatenata dalle bibliche migrazioni di disperati…” Tutto questo già si vedeva negli anni Novanta, ma oggi,  si chiede già nel 2009 Frabotta , “Disorientate nei deserti del mondo globalizzato dalla crisi, ma non dalla speranza, dove andare? Che fare?”.  Ci  porta con sé, nella sua narrazione, ancora in due suoi viaggi avvenuti in momenti e luoghi simbolo della crisi del Novecento, là dove germinarono i prodromi della situazione attuale. Il viaggio a Berlino poco prima della caduta del muro con la sua impossibile intervista a Cristha Wolf e il viaggio a Sarajevo con le sue indelebili cicatrici dell’assedio. Ci traghetta così all’ultima parte del libro  con l’illuminante discorso sulla laicità e con il bellissimo richiamo alla figura di Simone Weil. Sente il bisogno di metterci in guardia verso “… alcuni fatti che ci  inducono a tornare su  temi che sembravano indiscutibili e inalienabili, dopo il bagno di sangue del XX secolo, come l’espressione del libero pensiero, da cui discendono la libertà di fede, di ricerca, di critica verso qualsiasi idea venga immessa o addirittura imposta sulla pubblica piazza … una laicità delle coscienze  tranquillamente condivisa in una democrazia moderna dovrebbe essere la ferma e preventiva opposizione  a ogni discriminazione che colpisca il sesso, la cultura, la religione di appartenenza.”  Tutto ciò riguarda perciò anche i poeti e citando Solone, ci parla di “un politico poeta, dunque, garante di un buon governo di pace e giustizia” il quale dichiari che “L’ordine legale, il cosmo e le leggi che lo regolano non derivano dagli dei, ma sono costruiti dagli uomini”.  Nell’ illuminante ritratto che Frabotta ci consegna di Simone Weil le sue parole che ci giungono sempre da quel 2009, sembrano darci una lezione anche per l’oggi che l’autrice ha fatto in tempo a vedere. Pur facendo i dovuti distinguo tra gli anni Trenta  da cui ci parlava Weil e la situazione attuale  Frabotta ci ammonisce: “L’utopia che Simone invoca è a misura d’uomo e, più di quanto ella non abbia creduto , anche di donna. Contro la tentazione di rassegnarsi al male … oppone il coraggio di “concepire” la libertà … in una chiara figura di “libertà perfetta”, perché ciò che è migliore è concepibile solo mediante ciò che è perfetto”. L’azione politica dovrebbe essere illuminata dalla “buona volontà degli uomini che agiscono in quanto individui”,  senza tralasciare l’importanza e la saggezza di un’ idea di collettività libera.

 

Biancamaria Frabotta, Quartetto per masse e voce sola, Donzelli 2009

Biancamaria Frabotta (Roma 11 – 6 – 1946, 2 – 05 -2022) ha insegnato Letteratura italiana contemporanea all’Università “La Sapienza” di Roma. Figura di spicco del femminismo degli anni Settanta, è stata poeta, giornalista , saggista e autrice di un romanzo.


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