Putiniani d’Italia, troppe cose non tornano in questa faccenda della lista

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Troppe cose non tornano in questa faccenda della lista dei “putiniani d’Italia” sfornata dal Corriere. La cosa è apparsa evidente fin dalle prime ore dopo la pubblicazione. Nel mio piccolo il 5 giugno ho fatto un tweet che ha raggiunto le centomila visualizzazioni. E mi ero limitato a fare solo alcune domande: 1) dato che non siamo la Russia di Putin che c’entrano i servizi segreti con la libertà di espressione? 2) cose del genere accadono pure in altri paesi dell’Europa Occidentale? 3) E adesso dopo la “fotosegnalazione” che accade ai reprobi finalmente smascherati, per cosa li punite?

Questi interrogativi sono ancora tutti lì, senza risposte, a parte l’evidente imbarazzo del Copasir ( che dovrebbe occuparsi d’altro). E del Corriere che nei giorni seguenti non ha scritto nulla sulla successiva sgangherata diretta, la sera del 5, da Mosca de la 7 (sempre Cairo Editore) in cui Giletti ha avuto ospite Maria Zakharova portavoce del ministero degli Esteri russo.

Aspetti grotteschi a parte, con un gruppo editoriale che recita tutte le parti in commedia, le questioni di fondo sono pesanti come macigni. La prima l’ha rilevata subito, sempre con un tweet, Giuseppe Giulietti: che bisogno abbiamo di liste di “putiniani d’Italia” se basta spostare l’orologio a prima del 24 febbraio per trovare da noi un esercito di potenti e autorevoli amici di Putin? Ci sono foto, filmati, patti sottoscritti fra partiti, contratti sul gas. Ma di che parliamo? Possiamo continuare a fare sempre la parte degli ottusi smemorati? E il governo ha qualcosa da dire?

Ma il punto che più mi indigna è un altro. Le ragioni, le voci, le proposte di chi è contro l’aggressione di Putin ma vuole fermare le sofferenze provocate dalla guerra sono state oscurate. Il nostro orizzonte è occupato solo dalle armi, da una totalizzante logica bellicista. Fateci caso, nell’era della comunicazione in tempo reale, dopo oltre cento giorni di combattimenti, non sappiamo quanti soldati siano morti, né russi, né ucraini. Non sappiamo soprattutto quante siano esattamente le vittime civili. L’ultimo report del 7 giugno delle Nazioni Unite parla di 4253 decessi e 5141 feriti, ma sono numeri parziali, provvisori. Lo stesso report avverte che mancano informazioni da Mariupol, Izium, Popasna: i morti insomma potrebbero essere molti di più.

Il punto di vista di chi vorrebbe fermare questa “inutile strage” è scomparso dai radar. Non parliamo più di cosa sta accadendo agli ucraini, ormai parliamo soltanto di noi, dei protagonismi di questo o quel personaggio, dei litigi nei talk show, delle dinamiche autoreferenziali tipiche del nostro dibattito pubblico.

I “pacifisti veri” (non do patenti ma penso alle persone ispirate da sinceri intenti umanitari) sono stati soppiantati da chi ha guadagnato visibilità mediatica nel gioco delle contrapposizioni televisive alimentate peraltro da chi vuole imporci la guerra come unico scenario possibile. Risultato? Nessuno spazio per ragionare su un cessate il fuoco, nemmeno su una tregua temporanea, il ruolo di mediatore assegnato a un “paladino della libertà” come Erdogan. Ma c’è pure un altro risultato. Paradossalmente lo certifica oggi proprio un sondaggio Ipsos sul Corriere ( terza parte in commedia) che ci dice che cresce il numero degli italiani che non vuole schierarsi rispetto alla guerra e che non ha fiducia nell’informazione ( solo il 27% la considera neutrale e obiettiva).

Un capolavoro, non c’è che dire. Dovremmo rifletterci a fondo su questo pantano di paradossi e comportamenti controproducenti. Dossier, liste nere, predicatori mediatici, i talk usati come i social, i finti scoop, stanno minando la credibilità della mediazione giornalistica. Aver cura del Vero significa tornare alla centralità della notizia, al disastro umanitario cui nessuno mette fine.


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