Morti sul lavoro. Le domande giuste

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«Signor Arienti, lei è il proprietario della Mecnavi, cantiere che curava la manutenzione della Elisabetta Montanari. Si sente responsabile di qualcosa?» chiede Enzo Biagi.

«Limitatamente al rischio dell’impresa, sì. Per il resto ritengo che il nostro cantiere avesse tutte le normative di sicurezza…»
«Gli operai erano ingaggiati nel rispetto di tutte le norme? Ed erano protetti a sufficienza?»
«Allora… limitatamente alle misure Macnavi, direi di sì…»

È un brano dell’intervista che Enzo Biagi fece – sui canali della RaiTv – a Enzo Arienti, proprietario della MacNavi. impresa impegnata nella manutenzione di una gassiera nella cui stiva, il 13 Marzo del 1987, erano morti tredici operai, nove dei quali ventenni. Un incendio, sviluppatosi nella parte più profonda della stiva, aveva reso l’aria velenosa e i lavoratori – dodici in subappalto, uno solo dipendente MecNavi – vi erano rimasti intrappolati. Non c’era areazione sufficiente, mancavano gli estintori. Il lungo processo terminò nel 1994, Arienti fu condannato a quattro anni di carcere.

Ai funerali di Stato – c’era anche Nilde Iotti, allora Presidente della Camera dei Deputati – l’imprenditore non aveva voluto andare: «Non era una causa socialmente simpatica», avrebbe poi spiegato il suo avvocato. L’omelia pronunciata dall’arcivescovo di Ravenna, Ersilio Tonini, fu severissima. Alluse alle difficoltà delle indagini, parlando del porto come di “un posto omertoso, nascosto, infido, oscuro”. E parlò di “uomini e topi”, proprio come Steinbeck: “Fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero detto: ‘No, figlio mio! Meglio povero, ma con noi!’ Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare dieci ore in cunicoli dove – posso dire la parola? Non vorrei scandalizzare – dove possono vivere e camminare solo i topi! Uomini e topi! Parola dura, detta da un vescovo all’altare: eppure deve essere detta, perché mai gli uomini debbano essere ridotti a topi!”

Nei trentacinque anni seguiti a quella strage il rosario dei morti sul lavoro ha continuato e continua ad arricchirsi quotidianamente di grani: centinaia di migliaia gli infortuni, più di mille – ogni anno – i caduti sul lavoro. E non c’è più nessun Biagi – con la sua acribia, la sua pacatezza inesorabile – né nessun servizio pubblico d’informazione a chiedere conto, a porre le domande giuste, a illuminare col proprio mestiere, con spirito umilmente costituzionale, gli ambienti nascosti, omertosi e oscuri che sono teatro di quotidiane tragedie.

Perché, viene da chiedersi, ci si dimentica così in fretta di simili episodi? Perché il sistema dei media – così cresciuto in dimensioni, tecnologie e numero di voci, da allora – non è capace di mettere a fuoco il problema? Che cos’è che distoglie noi giornalisti dalla doverosa attenzione da rivolgere a questa strage continua che infanga e insanguina l’Articolo Uno della Costituzione?

Non è facile rispondere.
Il mondo del lavoro, stravolto da quarant’anni di deregulation e profondamente mutato dai processi della globalizzazione, è stato dilaniato dalla competizione interna e internazionale. Le tutele dei lavoratori – sempre più precari, sempre più deboli – sono aumentate solo sulla carta. E anche i giornalisti – sempre più deboli, sempre più precari – sono stati ingoiati dal medesimo gorgo. L’opinione pubblica – al netto delle stragi più eclatanti – si abitua, si è abituata, a considerare le morti sul lavoro alla stregua delle tante casualties dei teatri di guerra: vittime collaterali, da contare sempre dopo. Casi di poco conto, rispetto alla glorificazione dell’Impresa, che sembra essere rimasto l’unico soggetto degno di tutela e attenzione.

Se c’è una ragione strutturale nel silenzio; se c’è una motivazione politica nella disattenzione, ciò va ricondotto all’enormità della questione sollevata dalle morti sul lavoro, dagli oltre mille caduti annuali. Prendere atto dei numeri, collegare il fenomeno alle singole situazioni, inserire gli eventi nel quadro generale: se facciamo tutto ciò con serietà e umiltà – l’esempio di Enzo Biagi dovrebbe essere sufficientemente luminoso – allora possiamo giungere a una sola conclusione.

La disattenzione, la pigrizia, la lacunosa memoria collettiva sono frutto del nostro sistematico rifiuto di affrontare il nodo più profondo del problema: ciascun cadavere è un dito puntato contro lo sfruttamento, il caporalato, la sete di guadagno, la competizione al massimo ribasso, la penetrazione criminale nel sistema degli appalti pubblici… tutti i caratteri distintivi del nostro mercato del lavoro, della nostra intera economia. Sono proprio queste le tessere che ci permetterebbero di costruire un ritratto perfetto del sistema capitalista avanzato, nel quale i bilanci pesano nelle tasche degli shareholders e le persone scompaiono, vive o morte che siano. Affrontare alla radice il tema delle morti sul lavoro, insomma, significherebbe mettere finalmente in discussione gli assetti fondamentali del nostro sistema economico, della nostra società liberale. Ecco perché è così difficile farlo.

Eppure – è ancora il Tonini del 1987 a ricordarcelo: lo disse in tv, parlando delle vittime della MacNavi – “tra poco i figli saranno ricordati solo dai papà e dalle mamme”. Ecco il punto: se, come genitori virtuali, non sentiamo la necessità di adottare ogni vittima, ogni caduto, giovane o vecchio, uomo o donna, italiano o straniero, anche noi giornalisti siamo complici di tutti quelli che vogliono stendere una cortina di omertoso silenzio sulla strage dei lavoratori.


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