La storia sconosciuta di Flora Cocco: la partigiana “Lea”

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Negli ultimi decenni, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, grazie a pazienti e meticolose ricerche delle storiche e all’affermarsi degli Women’s Studies, si è detto e scritto molto sulla determinante partecipazione delle donne alle lotte per la Resistenza in Italia. Libri come La Resistenza taciuta: dodici vite di partigiane piemontesi (a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, 1976) o L’altra metà della Resistenza (Mazzotta ed. 1978), fino al più recente Voci di partigiane venete (a cura di Maria Teresa Sega, 2016) sono altrettante pietre miliari di questo filone di indagini. Non mi soffermo pertanto su questo prezioso lavoro di “restituzione” di tante figure di donne resesi protagoniste di imprese coraggiose soprattutto nei mesi drammatici dell’occupazione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco. Senza trascurare le numerose narrazioni di quegli anni tragici, nei diari, nelle testimonianze, nei racconti e romanzi di mano femminile, da L’Agnese va a morire di Renata Viganò (1949) a  I giorni veri di Giovanna Zangrandi (1963) a La rappresaglia di Laudomia Bonanni, per citarne alcuni. Vorrei però aggiungere una noticina a piè di pagina per rilevare che spesso siamo in presenza di narrazioni un po’ agiografiche, imprigionate in facili stereotipi tendenti a riprodurre gli schemi e i ruoli tradizionali svolti dalle donne, ma soprattutto che poco ci informano sulle singolarità delle protagoniste, sui loro conflitti interiori, sulle sofferenze patite nell’intimo, durante e dopo la Resistenza. Restano ancora in ombra tante donne che parteciparono attivamente e consapevolmente alle lotte per la libertà e la giustizia, tante storie di vita ed esperienze di donne che negli anni immediatamente successivi alla Liberazione si chiusero nel silenzio, come se fossero state inghiottite in un vortice oscuro che tolse loro ogni visibilità sulla scena del mondo “nuovo” in cui avevano tanto sperato e per il quale si erano spese con la consueta oblatività femminile.

Una di queste è la storia di Flora Cocco che oggi possiamo conoscere grazie alla caparbia determinazione di un’altra donna, Brigida Randon, che le ha restituito valore e ridato senso alla sua vita, facendola ritornare dall’oblio e dalla dimenticanza in cui era caduta, riportandola in vita e restituendole la sua voce (B. Randon, La scelta di Flora. Vita di Flora Cocco, la partigiana ‘Lea’, Ronzani editore, 2023).

Ridare voce ad una donna che è stata oscurata, condannata al silenzio, è una operazione di svelamento, di restituzione di visibilità che ha per le donne una forte valenza politica. È una forma di riconoscenza che spesso può significare anche “fare ordine” nella propria genealogia femminile. Brigida Randon racconta di aver sentito nominare Flora nei racconti di sua madre che ne parlava come di una figura saggia e autorevole, capace di spendersi per il bene comune. La madre di Brigida e Flora erano quasi coetanee, abitavano nello stesso paese, anzi nella stessa contrada, quindi erano legate da una vicinanza temporale e geografica. Inoltre Brigida ci tiene a sottolineare che la spinta, l’incitamento ad intraprendere il lavoro di ricostruzione biografica della partigiana ‘Lea’ le è venuto da un’altra donna.

Potremmo mettere in esergo a questo lavoro una felice notazione di Elsa Morante che, rivolgendosi ad un amico, scriveva: «Ma quel che importa è di scrivere […] prima o poi le carte canteranno». Per sottolineare l’importante funzione della scrittura per sopravvivere al tempo. Nel caso specifico, la scrittura di Brigida ha restituito ‘voce’ e ‘vita’ a Flora: le lettere, i documenti, le foto recuperati faticosamente e pazientemente da Brigida sono diventati altrettante “carte parlanti”, ognuno di essi ha raccontato un frammento, un tassello di storia. Ogni lettera ha dietro una storia e le “carte cantano” perché, come la musica, possono tramandare emozioni, sentimenti, gioie e dolori (e spesso tutto ciò interessa poco agli storici). Brigida ha saputo far cantare le poche carte che pazientemente ha recuperato di Flora, con un lavoro accurato e tenace, prendendosi cura, con amore, di questa donna dimenticata. È partita da un archivio ufficiale, quello della Brigata Stella, e via via ha aggiunto frammenti, piccole tessere, testimonianze sparse per ricostruire una “storia singolare”. Ogni donna ha una storia a sé e il “disegno della propria vita” è unico e irripetibile. Brigida ha saputo porsi domande e cercare risposte.

Mi pare importante sottolineare il rapporto che Brigida ha saputo instaurare con la sua biografata: ricostruendo la storia di una vita, quella di Flora Cocco, ma senza seguire un mero ordine cronologico, bensì aprendo un dialogo nel tempo e nello spazio con Flora, senza dare mai nulla per scontato, interrogando, facendosi e facendo ad altri domande. In questo modo si è sforzata di svelare l’intus di Flora: i suoi sentimenti, i suoi valori, le sue sofferenze, i suoi dolori. Il tutto senza invadere, con il pudore e il rispetto dovuti all’intimità di un’altra donna. Questo modo di procedere mi ricorda un po’ il romanzo Artemisia di Anna Banti, dove la narratrice instaura un dialogo serrato con la sua personaggia, Artemisia appunto.

Chi era Flora Cocco?

Flora Cocco nasce a Brogliano, un paesino adagiato sulle colline che separano la Valle del Chiampo da quella dell’Agno, sulla riva destra dell’omonimo torrente, in provincia di Vicenza. La famiglia è di condizioni economiche modestissime e, all’età di dieci anni Flora, la primogenita, rimane orfana di padre assieme ai due fratelli minori. La madre, Maria Cracco, con coraggio e intraprendenza si preoccupa di dare una adeguata istruzione ai suoi figli, così Flora può frequentare il ginnasio e poi un liceo privato a Valdagno, attivato per volontà del professor Adolfo Crosara di Cereda. Conseguita la maturità classica nell’estate del 1940, nonostante le ristrettezze dei tempi, decide coraggiosamente di iscriversi all’Università di Padova, alla facoltà di lettere e filosofia. Nel contempo svolge lavori saltuari per mantenersi agli studi e per contribuire al bilancio familiare, gravando il meno possibile sulle spalle della madre. Dal 1942 riesce ad ottenere degli incarichi come insegnante, prima in una scuola di Noventa vicentina e poi presso le scuole delle suore Orsoline di Arzignano. Cadono in questi anni un manipolo di lettere inviate all’amica Stellantonia Castellan, che ci restituiscono per rapide schegge alcuni frammenti della sua anima: la passione e la determinazione nello studio, la tensione ad approfondire ed ampliare le conoscenze, la “fiducia nell’avvenire”, il desiderio di sempre nuove letture, ma anche momenti di sconforto e di pessimismo, il peso della solitudine associato al bisogno di una parola di affetto e di incoraggiamento. Nei faticosi e spesso fortunosi viaggi a Padova per frequentare le lezioni o per sostenere gli esami, Flora conosce uno studente della facoltà di chimica, Giovanni Priante che nel dopoguerra diventerà suo marito. Nel frattempo, Giovanni Priante il 5 agosto 1942 viene dichiarato idoneo al servizio militare e assegnato al 46° reparto Artiglieria motorizzata. Qualche mese più tardi, anche il fratello di Flora, Giovanni Gaetano Cocco, sarebbe stato chiamato alle armi.

Dopo l’8 settembre 1943 la situazione si complica e la vita di tutti diventa più difficile e pericolosa. Il fratello di Flora, rientrato in famiglia per una convalescenza, decide di non tornare al reparto e di unirsi invece alle formazioni partigiane attive nella Valle dell’Agno. Flora, pur diradando le sue presenze a Padova, deve aver percepito la drammaticità del momento, sicuramente ha sentito risuonare dentro di sé le parole dell’appello rivolto il 1° dicembre 1943, dal rettore Concetto Marchesi, agli studenti dell’Università di Padova, prima di entrare in clandestinità per unirsi alla Resistenza: «Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, […] liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignominia».

Fin dai primi mesi del ’44, Flora entra in contatto con alcuni gruppi partigiani operanti nell’alta Valle dell’Agno, mentre il fratello nell’estate è attivo nella zona di Recoaro con la brigata Stella. Un massiccio rastrellamento con imponente dispiegamento di uomini e mezzi viene condotto dai tedeschi il 9 settembre tra Piana di Valdagno e Selva di Trissino: è l’episodio più tragico della guerra di liberazione, vi trovano la morte quarantuno partigiani, tra cui il fratello di Flora, e venti civili. Due settimane dopo, il 23 settembre ’44, Flora, pur nella sofferenza indicibile per la morte del fratello, indirizza ad Alfredo Rigodanzo (nome di battaglia ‘Catone’), commissario politico della brigata Stella, una lettera con la richiesta di entrare  a “lavorare con voi”. E tre giorni più tardi, rivolgendosi ancora a ‘Catone’, rende esplicito l’ideale che guida la sua scelta e la sua determinazione: «L’Italia dovrà ben bene epurarsi dal fascismo e subire una nuova ricostruzione, che sarà quella giusta e duratura».  La morte del fratello, «il primo grande dolore della mia vita», è per Flora un punto di non ritorno: all’età di ventiquattro anni chiede, con determinazione e consapevolezza dei rischi, di lavorare a fianco ai partigiani. Assume il nome di battaglia ‘Lea’. Saranno mesi di attività intensissima e ad alto rischio per l’incolumità propria e dei propri cari. Il suo coraggio, l’intraprendenza, il sacrificio e la sua intelligente capacità di collegamento hanno reso possibile il ricompattamento della brigata Stella che sembrava essere stata annientata dal feroce rastrellamento del 9 settembre.

Tanto tenace lavoro non sfuggì agli squadristi della zona che la inserirono nella loro lista nera e la arrestarono il 29 novembre ’44. Trattenuta dapprima dai fascisti della Brigata Nera di Valdagno, è condotta in seguito nella caserma della guardia repubblicana in San Michele a Vicenza, sede dell’Ufficio politico investigativo della RSI, e qualche mese dopo (marzo 1945) trasferita al carcere giudiziario di San Biagio in Vicenza, ne esce solo il 26 aprile, in “libertà provvisoria”.

           Nel maggio del 1945, prima dello scioglimento delle formazioni partigiane, si costituisce un battaglione femminile della Brigata Stella, il Battaglione ‘Amelia’, per riunire le partigiane della brigata, forse su suggerimento della stessa  Flora, che ne viene nominata comandante. La Commissione Regionale Triveneta per il riconoscimento dei partigiani – che l’ha riconosciuta partigiana combattente nella lotta di liberazione – le ha attribuito la qualifica gerarchica di “Tenente”, in qualità di responsabile dei servizi di collegamento della brigata.

Finita la guerra, Flora porta a termine i suoi studi universitari, laureandosi in lettere il 18 novembre 1946, presso l’ateneo patavino con una tesi dal titolo: Condizioni naturali e sociali delle industrie nel vicentino. Riprende l’attività di insegnante presso le suore Orsoline di Arzignano. Nel frattempo anche Giovanni Priante, rientrato dalla prigionia in Germania, conclude i suoi studi universitari e si laurea in Chimica. Si sposano l’11 agosto 1949 nella chiesa di Brogliano. Si trasferiscono subito a Pisa, dove Giovanni è stato assunto, con qualifica dirigenziale, nel lanificio di Marzotto.

La nuova vita pisana si rivela ben presto per Flora carica di insidie e di fragilità psico-fisiche che, dopo la nascita dei tre figli (Renzo, Giuseppe, Fernando), la porteranno a frequenti ricoveri in ospedale psichiatrico, mentre i figli vengono affidati alle famiglie di origine e il marito rimane solo a Pisa per conservare il posto di lavoro. Le cartelle cliniche parlano di crisi depressive che, negli anni ’50-’60, venivano curate con farmaci, elettroshock e ricoveri in manicomio. Flora si ritrova dentro un vortice opaco che la rende estranea a se stessa e alle persone che le sono accanto. Uscirà dal lungo tunnel della malattia solo alla fine degli anni ’60; nel frattempo il lanificio pisano della Marzotto è stato dismesso e la famiglia è ritornata in Veneto, dove il marito ha trovato lavoro in una fabbrica di Schio. Con la famiglia riunita e il ritorno alla terra delle origini, Flora sembra aver recuperato un po’ di serenità: è tornata persino a sorridere accarezzando con lo sguardo il suo primo nipotino. Muore a Vicenza, il 20 gennaio 1993 e, assecondando il suo desiderio, il marito e i figli la fanno seppellire nel cimitero di San Martino, all’ombra della più antica pieve della Valle dell’Agno, nel paese che le aveva dato i natali, Brogliano.

Lasciamo la parola ai figli, al loro commovente ricordo di quel giorno: «Quando è arrivato il feretro la chiesa era tutta piena. C’era gente di Brogliano, della vallata. Gente che non avevamo mai visto ed erano tanti, seduti e in piedi, perfino qualche bandiera italiana. […] Quando hanno chiuso la porta e non l’abbiamo più vista, ci sono state tante mani da stringere e gente che si ritrovava e si salutava agli angoli del cimitero. Starai bene qui, mamma? – abbiamo pensato – Sono belle queste colline dolci, i boschi e i prati e il verde poco morsicato dall’uomo. […] In quel momento, nel giorno del suo funerale è iniziata la nostra scoperta della madre prima che fosse nostra madre» (La scelta di Flora, p. 8).

Per comprendere la crisi esistenziale e umana di Flora, credo necessario fare un passo indietro e ritornare al biennio 1944-1945. Flora si è trovata dentro il vortice della lotta partigiana, ad agire in un equilibrio incerto tra ‘privato’ e ‘pubblico’, in un mettersi al mondo come donna che diventa di necessità un mettersi nel mondo, rompendo gli stereotipi del genere femminile. Con la caduta del fascismo, uomini e donne impegnati nella lotta di liberazione sono consapevoli di essere ad un punto di non ritorno: percepiscono che l’epifania di un mondo migliore, all’insegna di libertà e giustizia, comincia ad apparire a portata di mano. È il «tempo meraviglioso della speranza» di cui parla Italo Calvino nella Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno; il tempo in cui, per dirla con le parole di Natalia Ginzburg, «tutti pensavano d’essere dei poeti e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità». Ora, continua Natalia Ginzburg, «c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano» (Lessico famigliare, p. 171).

Bastano pochi mesi per rendersi conto che non tutto va per il verso giusto. Alba De Cespedes scrittrice sensibile e osservatrice attenta, che dal ’44 al ’48 aveva diretto la rivista «Mercurio», pubblica nel 1949 un romanzo, Dalla parte di lei, dove racconta tra l’altro la partecipazione delle donne alla Resistenza, ma soprattutto l’attesa di un “mondo nuovo” che aveva alimentato tante speranze e aspettative, e che non poteva che coincidere con il ‘bene’ per tutti. Commentando gli eventi di quel 1949, a distanza di qualche anno, De Cespedes afferma che esso segnò «la fine della speranza nata con la Resistenza», e titola l’articolo: Quando l’Italia perse le illusioni.

Nell’ultimo numero della rivista «Mercurio», uscita nella primavera del 1948, quindi subito dopo le elezioni politiche del 18 aprile in cui la Democrazia cristiana si aggiudicò la maggioranza assoluta dei seggi, leggiamo un dialogo tra Natalia Ginzburg e Alba De Cespedes dove, a proposito della condizione femminile, si afferma che «le donne cadono spesso nel pozzo», alludendo al frequente fenomeno della depressione femminile.

E Flora Cocco? Anche lei “perse le illusioni” che avevano guidato il suo agire per un mondo migliore fondato  su libertà e giustizia. Una giustizia nella polis e nelle sue vicende private (l’uccisione del fratello, la sua carcerazione, l’oltraggio subito). Anche nella vita privata di Flora il 1949 segna una svolta, una torsione non indolore: il matrimonio. È un matrimonio voluto, desiderato, atteso con ansia gioiosa ma che la conduce a Pisa.

Flora si trova così catapultata in una realtà inedita e imprevista: deve abbandonare il suo lavoro di insegnante, anzi nelle graduatorie la precedenza viene data agli uomini; si trova in una città nuova, priva di relazioni, quasi in un paese straniero; il marito è una figura dirigenziale ma lei è priva di ogni ruolo sociale, è isolata, è sola, ha perduto la sua identità pubblica; inoltre in cinque anni ha dovuto sostenere ben tre gravidanze. Ed è caduta nel pozzo: non ha avuto una mano femminile che l’aiutasse a riemergere. Certo la madre le è stata molto vicina, ma la madre la esortava a dimenticare il passato, a rientrare nei ranghi, ad accontentarsi di fare la “brava moglie” accanto ad un bravo e amorevole marito.


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