La Pietas e il trionfo del Potere

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Esterno notte 2”, di Marco Bellocchio, Ita-Fra, 2022.

Con Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Daniela Marra, Gabriel Montesi, Gigio Alberti.

Il potere è anarchico, fa quello che vuole, diceva Pasolini. E Bellocchio dipana il suo dire quasi a voler spiegare, puntualmente e storicamente, questa tragica verità. In questa seconda parte del suo lungo film sulla vicenda Moro, l’autore piacentino si addentra a piene mani, senza paura alcuna, nelle dinamiche di altri protagonisti della tragica fine dello statista pugliese, prima di giungere all’epilogo a tutti noto. Per primi sono Adriana Faranda e Valerio Morucci a reggere il palcoscenico di una finzione che insegue la realtà fino a superarla. I due brigatisti si muovono in un quotidiano fatto di rabbia e rancore verso un sistema sociale ed economico iniquo e disumano. Il loro comportamento è ossessivo, quasi maniacale. Più di ogni altra cosa ad interessare Bellocchio è, dunque, la loro psiche, capace di concepire l’eliminazione fisica come catarsi individuale e collettiva. All’interno di questo meccanismo mentale, vissuto in una perenne chiusura verso il mondo esterno, ripiegato su una mortifera consapevolezza di inevitabile sconfitta o agito da una vitalistica esaltazione del gesto omicida (vedi il Morucci spettatore appassionato de “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah), i due brigatisti sembrano fantasmi che si aggirano tra fantasmi.

Le controparti del film si somigliano, il Potere domina entrambi, li rende simili, come in un rispecchiamento senza vie di uscita. Qui emerge forte uno dei grandi temi di tutto il film, la consapevolezza dell’autore, il rivedere il suo passato personale ed artistico con occhio lucidamente critico. Il suo ribellismo anni ’60 e ’70 si è trasformato in una analisi spietata virata su stesso attraverso i grandi temi della Storia, di cui l’omicidio di Aldo Moro è l’episodio chiave, capace di ribaltare ogni prospettiva consolidata. Sembra quasi che il precedente film di Bellocchio, “Marx può aspettare”, abbia fatto da apripista verso un approccio carico di simboli e metafore pronte a disvelare nuove verità e vecchi inganni. “Esterno notte” assume così la dimensione di un’opera finale, dolorosa, riassuntiva di una vita, vissuta dall’artista emiliano con una grande capacità interpretativa, anche attraverso l’esperienza della psicanalisi, non a caso tema fondante della sua intera opera. Ed in questo suo lungo percorso narrativo la figura femminile ha avuto un ruolo altrettanto forte e simbolico, così come emerge dalle due donne protagoniste di questo film. Eleonora Moro (una sempre più brava Margherita Buy) è la moglie casalinga e devota, nonchè madre esemplare, che in confessionale racconta con grande rabbia al prete della sua stanchezza a reggere un ruolo per lei troppo pesante, ed anche penalizzante il suo essere donna.

Ma sarà proprio il suo tragico destino che le consentirà di esprimere finalmente il suo disgusto e la sua disapprovazione verso il mondo di interessi e falsità che circondava e blandiva il marito, alla fine rimasto, inevitabilmente, vittima di tutto ciò. Paradossalmente, invece, la vicenda della Faranda si muove in direzione opposta. In apparenza è una donna libera ma nei fatti si ritrova a ricoprire all’interno del rapporto di coppia con il compagno Valerio Morucci un ruolo tradizionale di subalternità, così come il suo essere donna combattente è destinato a passare al vaglio dei suoi compagni di lotta. Il tutto raccontato da Bellocchio sempre con l’obiettivo primario di soffermarsi sulle inquietudini interiori di tutti i protagonisti, vittime e carnefici, di una vicenda innanzitutto umana prima che storica o politica, e che soltanto con questo approccio può essere compresa fino in fondo. Questi mondi opposti e paralleli convergeranno nel tragico finale. Aldo Moro viene condannato a morte dalle Brigate rosse, la logica è con lui e contro di lui. Per il singolo, l’individuo, l’Uomo, non c’è salvezza. Il Potere ha una logica stringente, stritola e divora il soggetto motivo del suo agire, anche del suo miglior agire. In questo senso, la figura di Cossiga (straordinaria l’interpretazione di Fausto Russo Alesi), sgomento ministro dell’Interno, bipolare, in balia di sé stesso, avviluppato in una dinamica più grande di lui, sintetizza al meglio la sensazione di smarrimento e di vuoto irrecuperabile. Moro (un eccezionale Fabrizio Gifuni) nella sua stanzetta di morte ci guarda quasi ad implorarci di salvarlo, ci regala sguardi che raccontano l’essenza stessa dell’Umano, destinato ad essere, inevitabilmente, sopraffatto proprio perchè debole, naturalmente debole.

I suoi occhi ci costringono alla Pietas, e per questo, anche quando saranno chiusi per sempre dai colpi di una mitraglietta, avranno comunque vinto nella nostra memoria. Prova a ribellarsi Aldo Moro, con l’unico strumento che ha, le parole. Quelle che confida al suo prete, cui è stato consentito di incontrarlo nella sua prigione, prima dell’esecuzione. Moro confessa a voce alta il suo odio per Andreotti, per lui la summa di tutti i mali che ha conosciuto e sta conoscendo. Ma il suo è soltanto un grido inutile, impotente, fine a se stesso, che non gli appartiene neanche, e che per questo a noi spettatori suona ancora più doloroso. E gli spettatori, come già nella prima parte del film, tornano ad essere così i protagonisti del film. Tutto il tragico finale è metacinematografico. Moro sopravvive, lo avevamo già visto anche nell’apertura del primo episodio, ribadendo la sua impossibilità a vivere, dinnanzi allo sguardo glaciale di Andreotti e della Storia a venire che abbiamo avuto l’agio di conoscere. Moro muore e il cinema ritorna a farsi verità, ancora più dura per noi spettatori che abbiamo avuto il regalo di vederlo in vita nella Renault rossa pochi minuti prima, a simboleggiare un destino che poteva essere altro se soltanto altro fosse stato l’Uomo e quella grande e tremenda sua invenzione che si chiama Stato…


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