Il 25 aprile significa vivere per qualcosa

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Più che il 25 aprile, sembrava l’8 settembre. Più che un Paese libero e felice, in cui ci si riversa collettivamente nelle strade e nelle piazze per gridare la propria gioia per la Liberazione dagli oppressori, sconfitti quasi ottant’anni fa, sembrava il momento dello sbando, della resa, del “tutti a casa”, delle uniformi gettate precipitosamente in un angolo nel tentativo di salvarsi la vita, dei bandi Graziani e della fucilazione dei disertori. Non c’è stato alcun morto, ci mancherebbe altro, non si è materializzato alcun plotone d’esecuzione né qualcuno ha deciso di prendere la strada dei monti, pianificare la lotta armata o la “pianurizzazione”, niente di tutto questo; tuttavia, non eravamo più in un’Italia pacificata e desiderosa di guardare avanti bensì in una nazione terrorizzata e in guerra con se stessa. Da qui i fischi, le urla, gli opposti estremismi che si toccano e, venendo a contatto, danno vita a un impazzimento collettivo per cui qualcuno, va detto, è più responsabile di altri. Perché quando per mesi si ordisce una campagna denigratoria, offensiva e volta all’assalto nei confronti di tutti i santuari laici di un Paese che già difetta di istituzioni credibili e in cui i partiti sono diventati ormai eufemismi, quando si riversano pagine e pagine di scherno nei confronti di ogni opinione dissonante, quando si mira a demolire il pensiero critico e si pretende l’allineamento assoluto, il “signorsì signore” e la genuflessione nei confronti dei cantori della nuova vulgata, in quel momento risuonano sinistre le sirene di un nuovo fascismo. È il fascismo dell’elmetto, della corsa alle armi, dei manganelli mediatici e dei discorsi che inneggiano alla vittoria, che se non fossero ridicoli sarebbero preoccupanti, specie se si considera quanto portino storicamente male a chi li pronuncia.

E se è ben chiaro chi sia l’aggressore e chi l’aggredito, nel caso specifico del dramma che sta sconvolgendo l’Ucraina, è altrettanto chiaro chi siano gli aggressori e chi gli aggrediti in casa nostra. Qui dove qualcuno ha deciso di sommare alla tragedia la farsa, facendo dilagare una guerra civile a neanche troppo bassa intensità. Una guerra stronza, insensata, violentissima, in cui ogni occasione è buona per scatenare l’urlo, per gridare più forte, per coprire la voce di chi, isolato e in minoranza, prova a sventolare un vessillo di pace. Non si è salvato nessuno, nemmeno il Pontefice, in quanto, come sempre accade quando il piano si inclina e nessuno pare disposto a fermare la follia, chiunque osi dissentire è considerato alla stregua di un traditore, e si sa qual è la sorte riservata ai traditori, che sia reale come durante la Seconda guerra mondiale o figurata come adesso, dove comunque il fango viene gettato a palate senza distinzioni di sorta. Perché in guerra non esistono più amici, parenti, compagni, meno che mai le donne, vittime due volte se osano alzare la testa: in quanto dissidenti e in quanto animali sacrificali per definizione, cui non è consentito esprimere un’idea autonoma o ribellarsi allo stato delle cose.

A diciott’anni non avevo alcun dubbio se votare o meno. Perché per consentire a me e ai miei coetanei di recarci alle urne altri ragazzi della nostra età erano morti o erano stati torturati in maniera disumana. Era un diritto, dunque, ma anche un dovere, un qualcosa che aveva a che fare col vivere civile, con l’etica, con la conquista del diritto alla parola e anche alla lamentela quando le cose andavano male, cioè spesso. Era l’ingresso nella società e nel mondo, un rito sacro e imprescindibile. Oggi, se avessi diciott’anni, non so se avvertirei le stesse sensazioni, lo stesso afflato, la stessa passione civica. E non lo so perché mi sento immerso in un vuoto senza precedenti: di idee, di proposte ma, soprattutto, di dignità. È il vuoto di una politica che non rappresenta più niente e nessuno, di un giornalismo che troppo spesso mistifica e delegittima le opinioni altrui senza concedere nemmeno il diritto di replica, di un’informazione televisiva che si è trasformata in arena, circo, fenomeno da baraccone: uno spettacolo che complessivamente offende i valori per cui si batterono i partigiani e le staffette e che contribuisce in maniera decisiva a tradire l’eredità della Resistenza. E poi, ancor più insopportabile, c’è quest’idea della morte. Ebbene no, non la accetto. Sono ancora sufficientemente giovane per voler vivere a lungo e in un mondo possibilmente non devastato da guerre che non ho dichiarato, non ho voluto e non hanno alcuna ragione di esistere, se non la megalomania di alcuni, l’avidità di altri e la pazzia diffusa in un pianeta sovraffollato e nel quale le risorse sono distribuite, da tempo immemore, in maniera troppo diseguale. Fatto sta che l’ideologia della “bella morte” è la quintessenza del nazi-fascismo. L’idea che la guerra sia il “lavacro dei popoli” e la pace una forma di indolenza è il tratto distintivo del Ventennio e dei suoi conflitti selvaggi. Spiace dirlo ai troppi che parlano di cose che non sanno, con un’arroganza inversamente proporzionale alla conoscenza, ma i partigiani e le staffette, al contrario, imbracciarono le armi con la precisa volontà di essere gli ultimi a doverlo fare. Certo, uccisero anche. Certo, anche la Resistenza è costellata di episodi strazianti. Ma non fu solo una carneficina bensì una lotta per affermare un’idea di società radicalmente opposta a quella nazi-fascista, in cui ad esempio le donne avessero finalmente un ruolo e il diritto di votare. Ad animarla era un principio di uguaglianza, una risposta inclusiva sia alla crisi dello Stato liberale di inizio Novecento sia all’abominio guerresco e totalitario contro cui, dopo l’8 settembre, uomini e donne di idee politiche differenti, compresi ex fascisti e persone che non avevano ancora un’idea politica definita, imbracciarono le armi non per il gusto di ammazzare ma per il bisogno di riconquistare la libertà e dare ad essa un senso e un’anima. E mentre scrivo queste note mi viene un ricordo, riportato da uno dei pochi politici tuttora meritevoli di stima e d’affetto: un mese prima del 25 aprile, sette partigiani, quasi tutti sui vent’anni, vennero portati dal carcere di Monza a Pessano per essere fucilati. Il cappellano del carcere di Monza, che diede loro l’ultimo conforto, ricordò che uno di loro, avviandosi al patibolo, ebbe una disperata crisi di pianto, al che un suo compagno, altrettanto giovane, gli disse: “Ma che cosa piangi? Non moriamo mica per niente, moriamo per qualcosa”. Ha aggiunto quel galantuomo, uno dei pochi cui accorderei il mio voto senza remore, che decidere se quel giovane è morto per niente o per qualcosa dipende anche da noi. Ha ragione: il senso del 25 aprile è tutto qui. Nell’idea che quei giovani non siano morti invano. Nella certezza che essere liberi significhi vivere per qualcosa.


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