Presente ma lontana la guerra in Ucraina dall’America Latina

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Nell’entrare per la prima volta al palazzo della Moneda, il nuovo capo dello stato Gabriel Boric, il più giovane della storia cilena, ha rievocato il predecessore martire, l’anziano Salvador Allende:” le sue parole di libertà e indipendenza ispirano la nostra presidenza”, ha dichiarato solenne. Quella di Santiago può essere una svolta epocale per gli equilibri politici regionali e inter-etnici. A Caracas, dal cui governo Boric dichiara la massima distanza (tant’è che di là nessuno è venuto a rappresentarlo alla cerimonia d’insediamento), Nicolàs Maduro rivolge tutta la propria attenzione all’improvviso, possibile riaccomodamento dei rapporti commerciali con gli Stati Uniti. In Argentina, la maggioranza peronista al governo perde pezzi al momento di approvare in Parlamento l’accordo sul debito faticosamente raggiunto con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e deve patteggiare con l’opposizione.

L’America Latina avverte i contraccolpi della tragedia ucraina, che provocano correzioni in negativo rilevanti alle economie del continente e fanno intravvedere riallineamenti politici tanto all’interno di vari paesi quanto nei rapporti internazionali. Sono tutti esportatori di materie prime, sia minerali sia alimentari. Pertanto l’accelerazione impressa dalla guerra in Europa orientale alla crescita dei loro prezzi internazionali è un’ottima notizia. Attenuata non poco, però, dai fattori internazionali negativi che l’accompagnano. Dall’impennata subita dall’inflazione, dal più che fondato timore di un aumento del costo del denaro (il livello d’indebitamento è allarmante per tutte le Americhe), dalle rappresaglie finanziarie e commerciali occidentali all’aggressione militare russa voluta da Putin, che compromettono intese e accordi anche recenti con Russia e Cina, comunque complicandoli.

Nell’immediato, tuttavia, prevalgono sulle nuove preoccupazioni, le dinamiche imposte dai problemi già in agenda e improcrastinabili. Le incognite più buie riguardano in Brasile Jair Bolsonaro, le più luminose Nicolàs Maduro in Venezuela. Quest’ultimo è stato visitato da una missione diplomatica inviata in velocità dal presidente Joe Biden, per sondare il costo politico di una ripresa piena e programmata dei rifornimenti di petrolio venezuelano in sostituzione di quelli russi. Una manna dal cielo per il sempre più isolato autocrate che ha ereditato e sperperato in cieca prepotenza il potere di Hugo Chavez; un’ulteriore, pesante rovescio per i suoi sempre divisi oppositori interni. Da cui, nondimeno, se solo questi e quello sapessero per una volta approfittare della straordinaria circostanza per trovare un accordo di convivenza democraticamente accettabile, potrebbero trarre un sollievo non lieve né temporaneo per i venezuelani tutti.

Ancor più accidentati si presentano gli spazi di manovra alla portata di Bolsonaro, per condurre a compimento nei brevi tempi previsti gli accordi contratti con Putin, tutti molto contrastati all’interno del gigantesco paese sudamericano. Infatti, i tre i principali protocolli sottoscritti a Mosca (1: per la partecipazione tecnica e finanziaria russa alle ricerche petrolifere off-shore; 2: per la fornitura di fertilizzanti chimici destinati all’agricoltura estensiva; 3: per l’acquisto di armamento e relativa assistenza tecnica militare) sono fortemente osteggiati dall’opposizione. Tanto da buona parte dei parlamentari al Congresso, quanto in piazza dalla protesta dell’opinione pubblica impegnata in difesa dell’ambiente. Posto in ulteriore pericolo da questi progetti che minacciano vaste zone dell’Amazzonia già variamente ferita e lungo le coste dello stato di San Paulo.

Cuba e Nicaragua, che hanno solidarizzato con Putin (ma con il loro imprescindibile grado di dipendenza economica da Mosca, la scelta era obbligata), si trovano a dover pagare la loro parte del prezzo delle sanzioni occidentali alla Russia. Il blocco dei voli commerciali di Aeroflot e compagnie aeree collegate, colpisce severamente il turismo dei due paesi dell’area centro-americana e caraibica. Anche l’Argentina, sulla punta opposta del continente, dovrà rivedere i conti dell’export-import. Intanto è impegnata con i problemi creati da quelli del debito estero. L’accordo con l’FMI per la restituzione del gigantesco prestito contratto dal precedente governo neoliberista di Mauricio Macri, al momento dell’approvazione al Congresso ha spaccato la maggioranza peronista del Frente de Todos. 36 deputati hanno votato contro o si sono astenuti, convinti che il prestito sia stato concesso per collusione politica e ha violato lo statuto dello stesso FMI. Sarebbe pertanto illegale e impegnarsi a pagarlo invece di denunciarlo porterà l’Argentina alla recessione e al default.


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