La guerra dentro

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Sbaglia chi pensa che le guerre nascano solo sulla punta di un fucile o dal colpo di cannone che abbatte i muri delle case. Sbaglia chi si illude che basti condannare l’atto materiale della guerra per respingere la barbarie. Noi la guerra ce l’abbiamo dentro. Ce l’abbiamo dentro i nostri appartamenti, nelle nostre trasmissioni televisive, nei nostri salotti, nelle nostre discussioni quotidiane, sui social che traboccano di odio, rancore e spirito di vendetta, nelle richieste di epurazioni a danno di questo o quel commentatore sgradito o, comunque, non allineato. La guerra comincia dentro di noi quando non siamo più in grado di riconoscere le ragioni dell’altro, quando non sappiamo più soffermarci sulle sofferenze e sul dolore del prossimo, quando anche un nostro fratello o una nostra sorella diventa un nemico o una nemica, quando le parole di pace non trovano più ascolto, quando chiunque voglia sottrarsi alla logica dei blocchi contrapposti non può avere udienza, quando i pacifisti sono considerati alla stregua di collaborazionisti, quando la furia prevale sul buonsenso.
Noi la guerra la vediamo nella nostra quotidianità, nello sconvolgimento delle nostre agende e delle nostre discussioni, nell’incapacità di conservare un minimo di lucidità, di raziocinio e di analisi lungimirante. La guerra è già qui, anche se nessuna città italiana è stata ancora sfiorata, grazie a Dio, da una granata o anche solo da un sibilo di orrore. La nostra guerra è più sottile di quella che sta squassando l’Ucraina ma non meno feroce. Non ci sono i cadaveri per le strade, non vediamo le case diroccate, non abbiamo a che fare con le macerie materiali del conflitto ma quante sono ormai quelle morali disseminate lungo il nostro sentiero? Basti pensare a quel sito di arrapati puttanieri su cui qualche sedicente uomo si diverte a ironizzare sul dramma delle ragazze ucraine, aspettandole col portafoglio aperto per trasformarle in puttane e soddisfare così i propri desideri sessuali: è machismo allo stato puro, cinismo disumano, maschilismo senza pietà, barbarie senza fine. È la logica dello stupro di guerra, per l’appunto, della donna intesa come bottino e come preda e non accade in una qualche città lontana da noi ma a casa nostra, sotto i nostri occhi. Sono i nostri mariti e i nostri fidanzati a comportarsi così: questa è la nostra guerra, con le stesse logiche e gli stessi atteggiamenti di quella che abbiamo studiato sui libri di storia, lo stesso squallore, le stesse scorie, la stessa furia disumana e la stessa incapacità di fermarsi di fronte allo strazio altrui. È quando si arriva a festeggiare per la miseria degli altri, che potrebbe anche spingere qualche ragazza a compiere il gesto estremo di prostituirsi, che l’essere umano non esiste più.
È quando essere russo diventa una colpa che siamo di fronte a una forma non meno subdola e pericolosa del nazismo originario. È quando è rimasta solo la Chiesa a parlare di pace, fratellanza e solidarietà fra i popoli che non è rimasto più nulla, se non lo sconforto e il bisogno di tacere per sottrarsi a questo martirio dell’anima. Tacere e riflettere, centellinando le parole, scrivendo al momento opportuno, parlando solo quando si ha davvero qualcosa da dire o da gridare; non restare del tutto in silenzio, quello no, anche se ora comincio a comprendere le ragioni che hanno indotto donne che hanno subito l’indicibile a compiere questa scelta per decenni. Comincio a capirlo perché quando ti senti colpevole per i torti che hai subito, significa che la logica mefitica della guerra ce l’hai nel perimetro degli affetti più cari, ce l’hai intorno, aleggia nell’aria e non si può fermare. È dal 2001, da Genova, che questa follia è parte del nostro immaginario collettivo. Non a caso, è stata una delle donne che hanno subito quel girone dantesco a preoccuparsi per prima delle sorti delle donne ucraine, e le parole odiose scritte in quel forum rendono bene l’idea di quanto avesse ragione, come spesso accade a chi ha sofferto davvero e pertanto sa di cosa parla, frutto di una sensibilità speciale, unica nel suo genere e in grado di costituire una bussola per gli altri.
La guerra non è solo in Ucraina: è già arrivata. La vediamo nel momento in cui ci ammazziamo fra di noi senza neanche rendercene conto, nel momento in cui ci sembra normale offendere e insultare l’altro, aggredirci, accusarci delle peggiori nefandezze e poi immaginare che sia possibile una riconciliazione ovviamente impossibile, non nel breve periodo almeno.
La guerra in noi vive sotto forma di abisso: verbale, politico, sociale, civile, nella demonizzazione delle piazze e nel desiderio, malsano ed estremamente dannoso, di contrapporre la bandiera arcobaleno con la colomba disegnata da Picasso a quella azzurra e gialla dell’Ucraina distrutta. Come se schierarsi dalla parte del popolo ucraino voglia dire per forza essere piegarsi alla logica delle armi. Come se esprimere, con estrema gentilezza, le proprie opinioni, aprendosi a quelle altrui e non facendo del male a nessuno, equivalga a essere dei cretini, delle anime belle, sostanzialmente dei personaggi da poco, inadatti alla durezza dei tempi. Ebbene, confesso pubblicamente la mia inadeguatezza. Non sono adatto a questa lotta senza quartiere. Non sono capace di contrappormi a chi cerca solo di opprimere il prossimo e di mettere a tacere ogni voce dissenziente. Lo reputo un atto di crudeltà senza pari, degno di una dittatura, non di una democrazia occidentale. E reputo che sotto le macerie di Kiev e dell’Ucraina in ginocchio stiano rimanendo anche le nostre illusioni di vivere in un tempo di vera pace, il presupposto illuminista secondo cui bisogna battersi per consentire al più lontano da noi di esprimere, sempre e comunque, le proprie idee. Con meno di questo, l’Occidente è già finito, e questo è il rischio che vedo in questa fase storica. Che sia venuta meno la dignità umana, che siano venuti meno i presupposti della nostra convivenza civile, che sia svanita ogni possibilità di incontrarsi lungo la via della comprensione reciproca, che dei nostri capisaldi non sia rimasto nulla, se non l’ipocrisia di difenderli con la spada sguainata mentre, in realtà, li si calpesta.
Le piazze più disparate, ciascuna con i propri slogan, le proprie parole d’ordine e la propria visione del mondo, chiedono unicamente pace. Metterle in contrapposizione, esaltare lo spirito guerrafondaio di pochi a scapito della volontà di integrazione di molti, non accettare che ognuno è libero di esprimere le proprie idee come meglio crede e dividere la società in buoni e cattivi, dove i cattivi sono sempre coloro che dissentono da noi mentre i buoni sono solo coloro che condividono, virgola per virgola, i nostri ragionamenti, significa aver già rinunciato a ogni ipotesi di pace e condivisione ideale per abbracciare la logica dello scontro. E quando i tonfa, in questo caso verbali, vibrano nell’aria non c’è più spazio per niente e per nessuno, se non per qualche tardiva ammissione, magari vent’anni dopo, di aver sbagliato analisi, di aver scelto il bersaglio più facile anziché quello vero, di aver accettato che debba esistere per forza un bersaglio, possibilmente un popolo o un gruppo di pressione, per compattarsi intorno a parole d’ordine impregnate di follia. È la logica del sangue e del suolo, del Dio è con noi, dei nemici dell’umanità, degli affamatori del popolo: la stessa che conduce ai campi di sterminio o ai lager moderni, da Bolzaneto ad Abu Ghraib, la stessa che un grande regista e intellettuale aveva magistralmente descritto ambientandola a Salò, alla fine di un impero di cartapesta, al crepuscolo dell’inferno, quando la notte è più buia prima dell’alba. Ci domandiamo solo come sia stato possibile ripiombare in quella notte, in quelle tenebre, in quell’oscurità, in quel sonno della ragione che genera mostri, e i mostri stavolta siamo noi, un boia collettivo che finirà con lo stritolare innanzitutto se stesso e i principî che incredibilmente afferma di voler difendere.

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