Prendiamo per mano chi coltiva ancora un sogno

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Mettiamo da parte, per un attimo, lo scempio cui abbiamo assistito in questi giorni nel contesto politico, o sedicente tale, e concentriamoci su di loro. Mi riferisco ai ragazzi e alle ragazze di diciott’anni scesi in piazza per manifestare contro la violenza di una società ingiusta e che li ha condannati ad avere una scuola di scarsa qualità e un lavoro senza tutele, dignità e diritti. Mi riferisco a loro e penso a me stesso. Entrai, infatti, a far parte della famiglia di Articolo 21 al termine di una manifestazione studentesca. Chiamai al telefono Beppe Giulietti per chiedergli un’intervista e Beppe mi chiese di scriverne in prima persona: quattordici anni dopo sono ancora qui. Ebbene, avverto il bisogno di ricambiare, di mettere a disposizione uno spazio, di prendere per mano, come posso, nel mio piccolo, quei ragazzi e quelle ragazze che oggi manifestano ma non hanno più alcun numero da chiamare, nessuna sponda politica, nessun partito da cui farsi rappresentare e forse neppure una rappresentanza sindacale. Penso che dobbiamo essere noi, nel nostro piccolo, ripeto, a dir loro che non sono soli, che può esistere un futuro migliore e che dobbiamo costruirlo insieme. Penso che dobbiamo essere noi a prenderli per mano, anche perché in questo furore violento rischia di annegare la nostra società, rischia di perdersi ogni rapporto umano e civile, rischia di svanire ogni speranza. Noi non dobbiamo educarli all’odio nei confronti delle forze dell’ordine, della politica o del sistema: tutt’altro. Dobbiamo educarli al rispetto reciproco e all’ascolto, all’attenzione e al confronto, anche se bisogna dire che determinate cariche poliziesche sono davvero inspiegabili e rimandano a stagioni che non vorremmo mai più vivere. Ribadisco: se oggi siamo ridotti così è anche e soprattutto perché la generazione che era in via Tolemaide o alla Diaz ha lasciato perdere. E anche con loro bisogna parlare, anche a loro bisogna chiedere di tornare in scena perché abbiamo bisogno dei loro sogni, benché traditi, delle loro speranze, benché sconfitte, della loro passione civile, benché calpestata e presa a colpi di tonfa, e della loro capacità di immaginare un mondo diverso e altro. Li ho conosciuti in questi mesi e so che nel loro cuore battono ancora quegli ideali di cambiamento e di progresso che avevano vent’anni fa. Ebbene, è arrivato il momento che le generazioni facciano fronte comune, che studenti e studentesse di oggi sappiano di non essere soli, che qualcosa cambi davvero, in questa Italia abbandonata a se stessa e privata di ogni prospettiva. È bene che Articolo 21 diventi la loro casa, proprio come diventò la mia quando ero ancora un ragazzo bisognoso di trovare un luogo in cui esprimere liberamente le mie idee. Devono sapere che non sono soli, che siamo al loro fianco, che le loro battaglie sono anche le nostre e che contro la barbarie di questo mondo ci siamo anche noi. Tutto il lavoro che abbiamo svolto in questi anni, insieme al Sacro Convento di Assisi, all’universo di papa Francesco, contro le parole d’odio nella nostra professione, contro ogni ferocia e ogni crudeltà, tutte le azioni che abbiamo compiuto vanno, del resto, nella direzione di ampliare i diritti, far rete, coinvolgere, includere, accogliere, ed è bene che anche queste ragazze e questi ragazzi si sentano parte del progetto, che sappiano, come seppi io a diciott’anni, che avrebbero potuto denunciare un’eventuale ingiustizia, un possibile sopruso, una palese mancanza di rispetto. È bene che non vedano l’agente in divisa come un nemico ma che sappiano anche che se vengono presi a manganellate senza alcun motivo, qualcuno racconterà la loro storia. Si chiama scorta mediatica, illuminazione dei punti oscuri, buon giornalismo o, più semplicemente, amore per il prossimo. Lo stesso, ribadisco, che trovai io quando ero uno di loro. Lo stesso che devono trovare loro adesso.
Non lasciamo che la rabbia di queste ragazze e questi ragazzi generi altro silenzio. So, per averla conosciuta da vicino, di quanta ricchezza e meraviglia ci ha privato il silenzio di chi, dopo la Diaz, Bolzaneto, gli sputi, gli insulti e le torture, non ha trovato un posto come questo in cui venire a parlare. Ho toccato con mano la straordinaria umanità che c’è ancora dentro quelle persone e no, non possiamo permetterci di sacrificare un’altra generazione. Anzi, dobbiamo far sì che tutti parlino e che le generazioni, finalmente, si guardino negli occhi. Anche perché, in alcuni casi, i ragazzi e le ragazze di Genova, proprio come nel bellissimo romanzo di Fabio Geda “Fai qualcosa!”, sono gli insegnanti dei “ribelli” e delle “ribelli” di oggi.

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