Cina, prigione digitale dei giornalisti

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Hacker’s Dictionary. Un rapporto dei giornalisti di Reporters sans frontières denuncia censura e repressione nel paese del Dragone: alle intimidazioni e agli arresti si aggiunge la censura via software, app e siti web

Dopo Stand News, giornale indipendente che ha annunciato la sua chiusura a seguito dell’arresto di sei membri dello staff, anche il Citizen News di Hong Kong chiude. Così dopo aver sollecitato il rilascio della giornalista cinese Zhang Zhan, condannata a quattro anni di carcere per aver coperto la pandemia di Covid-19, Reporters sans frontières (RSF) chiede il rilascio di tutti i giornalisti detenuti e invita le democrazie a reagire e difendere ciò che resta della stampa libera in Cina.

Pochi giorni fa lo ha dimostrato con il suo ultimo rapporto. Nella prefazione di 82 pagine, Christophe Delorie, segretario generale di RSF, racconta il modello di censura cinese: «tanto più terrificante dato che il regime ha immense risorse finanziarie e tecnologiche per raggiungere i suoi obiettivi. Il “Great Firewall”, tiene il miliardo di utenti Internet cinesi lontano dal mondo mentre un esercito di censori controlla la messaggistica privata, alla ricerca di presunti contenuti sovversivi. Nel prossimo futuro, l’ubiquità delle tecnologie di sorveglianza basate su riconoscimento facciale, intelligenza artificiale e credito sociale minaccia di rendere illusoria la riservatezza delle fonti dei giornalisti».

Il rapporto rileva che almeno 127 giornalisti sono attualmente detenuti in Cina e descrive la nazione come «la più grande prigione per giornalisti del mondo«. Nel 2021 RSF World Press Freedom Index, la Cina si colloca al 177° posto su 180, solo due punti sopra la Corea del Nord. Sorveglianza residenziale in un luogo designato è l’eufemismo usato dal regime cinese per la detenzione arbitraria di dissidenti, e giornalisti indipendenti nelle cosiddette «prigioni nere», una rete di centri di detenzione extralegali istituita in tutta la nazione. Come parte del controllo ideologico, il Dipartimento della Propaganda del Partito Comunista Cinese trasmette le linee guida quotidiane sulla censura, la strutture delle notizie e la propaganda a tutti i media statali e affiliati al partito. E infine si giunge alle Confessioni TV forzate: dissidenti politici e giornalisti costretti a «confessare» i loro presunti crimini alla TV di Stato. Dal 2013 ci sarebbero state 93 confessioni televisive forzate, tra cui 30 giornalisti e operatori dei media. Ultimo, l’invito «all’ora del tè» espressione usata dal regime per interrogatori e intimidazioni verso dissidenti e giornalisti.

C’è da dire però che mentre alcune leggi, come La National Security Law introdotta a Hong Kong nel 2020, permettono al governo di indagare e arrestare indiscriminatamente i suoi cittadini e ha consentito che l’Apple Daily venisse chiuso e i suoi giornalisti arrestati, il rapporto elenca tutta una serie di strumenti software, app e siti web impiegati dal regime cinese per sopprimere la libertà di informazione.

1) Il Grande Firewall: un sistema di blocco dei contenuti per impedire alle «informazioni sensibili» di entrare nella rete cinese.

2) Gli occhi indiscreti di Internet: tecnologia di sorveglianza utilizzata per monitorare le chat di gruppo e i messaggi privati attraverso le piattaforme di social media nazionali

3) L’applicazione per smartphone «Studia Xi, rafforza la nazione»: dal 2019 i giornalisti cinesi sono stati costretti a scaricare l’app, che consente alla polizia di eseguire comandi e raccogliere informazioni personali all’insaputa dell’utente.

Uno scenario terrificante, popolato dall’esercito dei troll: un numero enorme di censori online, pagati o volontari, che segnalano contenuti sensibili, diffondono narrazioni nazionalistiche e attaccano i dissidenti.

Fonte: “Il Manifesto”


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