Perché l’America è in guerra con se stessa

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Esattamente un anno fa andava in scena, a Capitol Hill, un assalto, quello dei sostenitori di Trump al Parlamento americano, che avrebbe sconvolto per sempre gli equilibri mondiali. Alcuni osservatori lo hanno paragonato, non a torto, al caos generato dall’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono che ebbe luogo l’11 settembre 2001. Il confronto è amaro ma non infondato, specie se si considera che avevamo sempre guardato all’America come a un punto di riferimento e che da almeno vent’anni quel punto di riferimento è venuto meno. Non è assurdo parlare addirittura di tramonto dell’Occidente, dopo due guerre disastrose, Afghanistan e Iraq, e una miriade di morti disseminati per il mondo. Illudendosi che la storia fosse finita, come sostenne erroneamente Fukuyama e come purtroppo hanno sostenuto troppo a lungo molti suoi epigoni, gli Stati Uniti hanno infatti portato avanti, negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, una politica unilaterale e irrispettosa nei confronti del resto del pianeta, imponendo una globalizzazione forzata e nociva, all’insegna del liberismo selvaggio e della violazione sistematica dei più elementari diritti umani, con la conseguenza inevitabile di fiaccare il concetto stesso di democrazia e, infine, anche le fondamenta della stessa in casa propria. Basti pensare, a tal riguardo, alla contestatissima elezione di Bush nel 2000 e a tutto ciò che ne è seguito.
Ma già Clinton, con la sinistra di centro, e anche un po’ di destra, a dire il vero, aveva elevato al cubo la Reaganomics, trasformando l’edonismo dei predecessori, Reagan per l’appunto e Bush padre, in un massacro sociale senza precedenti; un processo di degenerazione che sua moglie ha pagato a caro prezzo nel 2016, quando si è presentata davanti agli americani per ottenere un consenso che non avrebbe mai potuto ottenere. No, Donald Trump non viene fuori dal nulla: è una storia profondamente americana e profondamente radicata in un tessuto comunitario sfibrato, in un ceto operaio ridotto agli stracci, in un malcontento diffuso, in una spirale di disuguaglianze sempre più insostenibili e in una violenza diffusa che la presidenza Obama non è riuscita a mitigare, meno che mai nei confronti degli afro-americani. Donald Trump costituisce, al contrario, la punta dell’iceberg di un modello collassato, di un sistema che non tiene più, di una democrazia in crisi avanzata, di un assetto di potere degenerato e di un universo democratico che, un po’ come avviene in Europa, non rappresenta più le categorie che dovrebbero costituire la sua stessa ragione di esistere. Non è, dunque, fuori luogo indicare nel clintonismo una delle radici del degrado della sinistra, della sua sconfitta storica a livello planetario e dell’ascesa di soggetti populisti, demagogici e pericolosi che hanno avuto nel tycoon newyorkese il proprio alfiere e nella barbarie di Capitol Hill la sublimazione di un processo di disgregazione più che ventennale.

Un anno dopo, e sul punto concordano molteplici osservatori, la democrazia americana è ancora più fragile, anche perché appare evidente il fallimento di Biden, un presidente incolore supportato da una vice, Kamala Harris, che ha deluso non poco le forti aspettative che c’erano sul suo conto, e si fa strada l’ipotesi, a nostro giudizio aberrante, di una possibile ricandidatura di Trump e di un suo ritorno alla Casa Bianca nel 2024. Anche se non dovesse esserci nuovamente Trump alla guida della fu superpotenza mondiale, non c’è dubbio che la svolta anti-democratica della Nazione che per decenni abbiamo guardato con ammirazione e desiderio d’imitazione sia sotto gli occhi di tutti, come confermano le preoccupazioni di due ex presidenti, Carter e Obama, che hanno espresso pubblicamente i propri timori per il futuro del Paese.
L’America ha smesso di essere un sogno, un modello e un punto di riferimento per gli altri e oggi mostra la sua profonda debolezza, le sue rughe, le sue evidenti contraddizioni, la sua incapacità di fare i conti con la mutata realtà globale e la sua inadeguatezza ad accettare la realtà di un pianeta in cui non può più esistere un paese leader, in quanto il contesto è ormai multicentrico e le nuove tecnologie hanno fornito alla globalizzazione quell’estensione che prima non aveva, privando il vecchio schema euro-atlantico della sua attualità.

Donald Trump è un rimedio peggiore del male, su questo non c’è dubbio, ma che non sarebbe scomparso con la sconfitta del novembre 2020 era chiaro a tutti. O almeno a tutti coloro che non lo hanno mai considerato un infortunio o una parentesi ma un elemento essenziale per comprendere il declino di un ex impero che batte in ritirata e si rifiuta pervicacemente di fare i conti con se stesso. Non temiamo, per l’avvenire dell’America, e a dire il vero anche del nostro, il rischio di una tirannide; semmai di una democrazia autoritaria, definizione che sarebbe di per sé un ossimoro ma che nell’epoca delle catastrofi e della perdita totale di certezze acquisisce una sua validità. Capitol Hill, un anno dopo, sta lì, nella sua monumentale fragilità, a ricordarcelo.

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