Maradona, il cinema e la vita come viene…

0 0

“E’ stata la mano di Dio”, di Paolo Sorrentino, prod.Ita,2021.

Anche per Sorrentino è arrivato, a sancirne la maturità artistica, il momento della confessione, dell’autobiografia. L’improvvisa perdita dei genitori, il rapporto viscerale con Napoli, Maradona che gli salva la vita, la vita tremenda che lo porta verso la felicità del cinema, il suo cinema che qui omaggia a dismisura Fellini, ma anche Capuano, il fischio de ”Il giovedì” di Dino Risi e, ahimè, un certo tornatorismo, con una zia solare e un pò matta di cui innamorarsi. Insomma c’è di tutto, anche troppo, in questo nono film dell’autore napoletano, che sa essere, come spesso gli accade, geniale e deludente insieme. E allora iniziamo ricordando alcune di queste genialità. Il primo rapporto sessuale del giovane Fabietto-Paolo con l’anziana baronessa Focale, a metà tra il decadentismo d’annunziano del decòr e il Casanova felliniano, a esaltare prodigiosamente l’inevitabile l’intreccio di Eros e Tanathos. L’amicizia iniziatica e salvifica del protagonista con il “simpatico” delinquente napoletano, tra commedia all’italiana e vitalismo pasoliniano. L’incipit del film a metà tra realtà e follia, con la bella zia del protagonista, di cui sopra, circuita da un inquietante San Gennaro, tanto misterico quanto palese nelle intenzioni seduttive. Il provino napoletano di Fellini, più felliniano del grande Federico, con volti e sguardi da rara maestria citazionista. Il dialogo di Fabietto con il regista napoletano Antonio Capuano, con il quale Sorrentino nella realtà collaborò come sceneggiatore di “Polvere di Napoli”, incontrato in una notte disvelatrice di verità, assolute e relative insieme, sulla vita e il cinema, e da cui Fabietto uscirà consapevolmente Fabio. L’incantamento della gente in strada dinnanzi “all’apparizione” di Maradona, in una sospensione spazio-temporale davvero unica. La sequenza del prefinale con la sorella di Fabio, Daniela (il simbolico sentire femminile di Sorrentino?!) che finalmente esce dal bagno e si appalesa allo spettatore in una casa ormai vuota nella quale muoversi piangendo ad evocare chi non cè più: una meraviglia per gli occhi. Il finale con Fabio che lascia Napoli per Roma, alla ricerca di un nuovo senso da dare alla sua vita, con un ultimo commovente sguardo verso le sue “cose”, chiude al meglio un racconto di formazione che dice anche dell’inevitabile passaggio alla maturità. A questo punto sembra ingeneroso dire del deludente sorrentiniano di questo film. Ma c’è. L’incapacità di gestire spesso una narrazione coerente, da quella incentrata sui genitori di Fabietto, troppo facile per un rapporto così complicato e tormentato, all’altra (un’occasione davvero persa) dell’inquieta zia Patrizia, uscita di testa per l’impossibilità di avere figli, giocata su inopportuni toni da commedia che nel finale diventano, giustamente quanto incogruamente e facilmente, drammatici. E poi certe figure simboliche, come il “munaciello” dell’antica tradizione napoletana, messe lì senza alcuna funzione arricchente per il contenuto e l’estetica del film. Per non dire del tanto girare a vuoto del protagonista in solipsismi che vorrebbero essere antonioniani ma che scontano una sfiancante ripetitività che, magari, si sarebbe potuta evitare se i 130 minuti del film fossero stati un po’ di meno. Ricordiamoci di Gillo Pontecorvo che raccomandava di non dilungarsi mai troppo… In ultimo, un film necessario, inevitabilmente sentito, carico di un dolore capace di diventare occasione di vita. Per l’ennesima volta, l’opera di Sorrentino è la valida testimonianza di quanto un film che parte da un particolare, geografico e personale, riesca ad essere efficacemente universale.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21