Un altro mondo è necessario. Intervista con Walden Bello

0 0
La pandemia e il vaccino. Prendersi cura degli altri. Marciare da Perugia ad Assisi per ribadire un messaggio universale di pace e fratellanza fra i popoli. Al tempo stesso, costruire un’alternativa al paradigma economico, politico e sociale che ha egemonizzato gli ultimi tre decenni, altrimenti nessun cambiamento effettivo sarà possibile e ogni promessa in tal senso resterà tale. L’analisi di Walden Bello, intellettuale, attivista e politico filippino, fra i massimi critici dell’attuale modello di globalizzazione e di sviluppo, è insieme speranzosa e tragica. Prima di Dunkerque, a suo dire, c’è sempre Stalingrado e le forze della conservazione, proprio come vent’anni fa, faranno di tutto per fermare il cambiamento in atto. Il punto è che forse, vogliamo crederlo con tutto il cuore, vasti settori della popolazione mondiale hanno capito, anche grazie alla predicazione di papa Francesco e alle battaglie di Greta Thunberg, che non c’è un pianeta B e che un altro mondo, se ieri era possibile, oggi è urgentemente necessario.
Vorrei cominciare dai giorni di Genova del 2001. All’epoca lei parlava di riflessioni quasi profetiche sul futuro che ci avrebbe aspettato se non avessimo cambiato il nostro modello di sviluppo. Cosa ricorda del dibattito di quei giorni? Cosa è rimasto di quelle intuizioni e di quel movimento di protesta?
Genova è avvenuta dopo il crollo dell’incontro di Seattle dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Seattle aveva rotto l’immagine dell’invincibilità della globalizzazione e l’ideologia del neo-liberismo che la sosteneva. Dopo Seattle, sempre più voci dell’establishment, come George Soros, Jeffrey Sachs e Joseph Stiglitz, hanno ammesso le verità che molti di noi nel movimento anti-globalizzazione dicevano da anni: che la globalizzazione e il neo-liberismo stavano producendo, a conti fatti, più male che bene, che stavano creando più povertà, più disuguaglianza e più stagnazione economica. La protesta del 2001 a Genova, con oltre centomila persone provenienti da tutta Europa, dagli Stati Uniti e persino dall’America Latina, dall’Asia e dall’Africa, ha preso slancio da Seattle e, come Seattle, è diventata un faro di lotta contro le multinazionali cardine della globalizzazione. Gli eventi dell’11 settembre, tuttavia, hanno fatto deragliare il movimento e ne hanno fiaccato lo slancio, poiché il mondo era distratto dalla guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo. È stato solo dopo il collasso finanziario globale del 2008 che la lotta contro la globalizzazione ha riacquistato parte del suo slancio, con l’emergere del movimento Occupy Wall Street negli Stati Uniti e dei movimenti Indignados in tutta Europa, con la Grecia che con Syriza che ha fornito un punto di riferimento alla lotta.
Lei ha sempre lottato contro il modello di sviluppo neo-liberista, divenuto egemonico a partire dagli anni ’80. Qual è l’aspetto più insopportabile di questo sistema economico e finanziario? Ci parli, in concreto, delle sue conseguenze pratiche.
Il forte aumento della disuguaglianza in tutto il mondo è, ovviamente, il risultato negativo più noto del modello neo-liberista, ma altrettanto importante è stato l’aumento sia del numero dei poveri a livello internazionale che nella maggior parte dei paesi. È stato solo a causa dei circa trecento milioni di persone sollevate dalla povertà in Cina che il numero dei poveri a livello globale è stato ridotto. Il modello capitalista cinese, guidato dallo Stato, è riuscito a ridurre il numero dei poveri ma non a contenere l’aumento della disuguaglianza all’interno del Paese. Nella maggior parte degli altri stati del Sud del mondo e, dopo la crisi finanziaria globale del 2008, nella maggior parte dei paesi del Nord del mondo, il numero dei poveri è aumentato sia in termini assoluti che in proporzione alla popolazione. Nel Sud del mondo, le politiche di aggiustamento strutturale hanno portato a una maggiore povertà e disuguaglianza. Negli Stati Uniti e in Europa, la finanziarizzazione e la deindustrializzazione hanno avuto gli stessi risultati.
Lei, in “La vittoria della povertà”, parla ampiamente degli Stati Uniti e dei danni arrecati dal trionfo del loro modello ai paesi del Terzo Mondo. A vent’anni esatti dal fatidico 2001, quali sono, secondo lei, le principali responsabilità americane nella crisi mondiale, a partire dai paesi del Sud del pianeta?
Gli Stati Uniti sono i principali responsabili della diffusione della povertà e della disuguaglianza, ma ciò non è dovuto solo alle attività delle loro multinazionali, bensì anche all’imposizione di programmi di aggiustamento strutturale da parte della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che controlla, insieme alle ricche economie europee. La povertà e la disuguaglianza, insieme alla stagnazione economica, sono state istituzionalizzate in tutto il Sud del mondo. Negli Stati Uniti, la redistribuzione del reddito dalla classe media ai ricchi, la finanziarizzazione dell’economia che ha portato all’accaparramento di questo processo da parte dell’1% più ricco e la deindustrializzazione quando le multinazionali si sono trasferite in Cina alla ricerca di manodopera a basso costo sono stati i principali processi distruttivi promossi dal neo-liberismo. È avvenuta la stessa cosa in gran parte d’Europa, specialmente nell’Europa meridionale, dove il benessere economico delle comunità è diventato ostaggio di politiche che hanno posto il rimborso del debito come la massima priorità economica. La distruzione degli standard di vita del popolo greco è stata emblematica di ciò che stava accadendo nella maggior parte dell’Europa meridionale e orientale, così come in Irlanda.
Lei stigmatizza i grandi accordi commerciali: NAFTA, CETA, TTIP ecc. Quale modello alternativo propone? 
Questi accordi commerciali, con l’abbattimento radicale delle tariffe e la promozione dei diritti di proprietà intellettuale delle corporazioni, hanno portato alla distruzione o all’erosione dell’industria e dell’agricoltura in tutto il Sud del mondo. Penso che siano diventati semplicemente indifendibili. Anche un ideologo del libero scambio come l’economista dell’Università di Oxford Paul Collier, che è stato fondamentale nel promuovere le politiche commerciali neo-liberiste come capo dell’influente dipartimento di ricerca della Banca Mondiale nei primi anni 2000, ora ammette che queste politiche di libero scambio hanno destabilizzato le economie sia del Nord che del Sud del mondo, affermando inoltre che gli economisti dovrebbero smettere di difenderle. Sono favorevole ad accordi e partnership economiche, ma non dovrebbero essere basate sui principi neo-liberisti di istituzionalizzazione del libero scambio e della libera circolazione dei capitali. I principi fondamentali dei nuovi accordi dovrebbero essere il reciproco miglioramento delle condizioni di esistenza dei popoli dei paesi coinvolti attraverso la cooperazione economica e l’assistenza reciproca che istituzionalizzano le tutele per le industrie nazionali e le economie agricole, nonché i meccanismi nazionali e regionali di protezione ambientale. Wuanto agli obiettivi chiave di tali accordi, sono obiettivi condivisi di riduzione della povertà, obiettivi di riduzione della disuguaglianza e obiettivi per ridurre radicalmente le emissioni di carbonio. Le politiche economiche comuni e nazionali dovrebbero quindi essere configurate per raggiungere questi obiettivi. Questi saranno necessariamente accordi complessi, in contrapposizione alle politiche neo-liberiste ingenue ma molto dannose di abbattimento delle tariffe e abolizione delle barriere ai flussi di capitale.
La crisi delle cosiddette “Tigri asiatiche”, alla fine degli anni ’90, ha preceduto di dieci anni la crisi dei mutui subprime che ha messo in ginocchio gli Stati Uniti e la crisi economica che ha cambiato il volto dell’Europa. Perché l’Occidente si è rivelato così miope? Quali interessi hanno prevalso sul bene comune?
Ebbene, erano principalmente interessi aziendali transnazionali a essere serviti da queste politiche, ma non bisogna sottovalutare il ruolo di economisti e tecnocrati che sono stati accecati dai loro modelli o paradigmi con assunzioni semplicistiche che potrebbero essere manipolate matematicamente per ottenere i risultati desiderati ma avevano ben poco fondamento nella realtà. La maggior parte degli economisti continua a essere imprigionata nell’economia neo-classica, il che dimostra il potere delle ideologie. Quindi il problema non erano solo gli interessi corporativi, ma l’imprigionamento ideologico o i pregiudizi degli economisti e dei tecnocrati neo-liberisti. I cinesi non avevano questi paraocchi ideologici, quindi non sorprende che abbiano creato un’economia così dinamica che ha lasciato indietro i tradizionali poteri capitalistici.
Lei, già ai tempi di Genova, affermava che il sistema capitalista poteva reggersi solo su guerre sanguinose, come poi puntualmente è avvenuto. È possibile oggi fermare e attuare il processo di “deglobalizzazione” che lei auspica o siamo nel campo dell’utopia? Prevale in lei l’ottimismo o il pessimismo?
Sì, con la drastica riduzione dei viaggi e degli scambi transnazionali, il Covid-19 ha creato le condizioni per la deglobalizzazione e il rinvigorimento delle economie nazionali nel Sud del mondo. Naturalmente, è necessaria la cooperazione internazionale in determinati settori, come as esempio affrontare la sfida del cambiamento climatico e prevenire la guerra. Ma la deglobalizzazione accompagnata da una cooperazione internazionale positiva può essere un’ottima combinazione. Sull’ottimismo, sì, sono ottimista nel senso gramsciano dell’ottimismo della volontà insieme al pessimismo della ragione.
Per quanto riguarda i cambiamenti climatici e gli sconvolgimenti che hanno prodotto, siamo ancora in tempo per fermare la deriva che sta travolgendo l’intero pianeta o pensa che sia troppo tardi?
Non abbiamo altra scelta che cercare di arrestare questa deriva, ed è meglio morire combattendo che arrendersi. Ricorda che sono sempre le ore prima dell’alba quelle più buie. Le Dunkerque sono inevitabili, ma lo sono anche le Stalingrado.
Le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente, al punto che otto miliardari possiedono il patrimonio di tre miliardi e mezzo di poveri e poverissimi. Quale futuro immagina per il pianeta, ad esempio per quanto riguarda le migrazioni di esseri umani in cerca di un futuro migliore?
Penso che le politiche necessarie per invertire queste tendenze siano chiare. È la volontà politica collettiva che deve essere sviluppata e non abbiamo altra scelta che svilupparla e liberarci di queste forze che ne impediscono lo sviluppo. Queste forze adotteranno sempre più metodi autoritari per fermarci, quindi dobbiamo essere preparati a lotte dure e forse sanguinose. Le forze dello status quo non si arrendono mai senza combattere.
Si parla del “secolo asiatico”. Quali prospettive vede per il suo continente?
La Cina offre sia speranza che pericolo. Penso che la nostra posizione dovrebbe essere quella di lavorare con il popolo cinese per far emergere gli elementi positivi nel rapporto del governo del Dragone con la sua gente e il mondo e ridurre gli elementi negativi. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, sono diretti verso la guerra civile e diventano ogni giorno un pericolo sempre maggiore per il pianeta. Le forze del trumpismo continuano a minacciare di impossessarsi del sistema politico americano, quindi dobbiamo essere preparati al peggio, soprattutto se i trumpisti torneranno alla presidenza nel 2024.
Ha speranza nel coraggio e nella voglia di lotta delle nuove generazioni o temi che la crisi politica mondiale possa portarle al disimpegno? 
Non abbiamo altra scelta che sperare e combattere, anche se l’oscurità ci avvolge. Come ho detto, le Dunkerque sono inevitabili, ma spesso le Stalingrado sono preludi necessari.

Iscriviti alla Newsletter di Articolo21