Pupi siamo. ‘L’ultimo degli Alagona’ al Teatro Stabile di Catania

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Cosa sia l’Opera dei pupi e quale grande tradizione abbia alle spalle, quanto sia alta e colta questa tradizione, quanta rivalità ci sia in Sicilia fra le scuole dei pupi (Palermo contro Catania e la sua appendice ad Acireale) è cosa nota per i siciliani. Forse non lo è così tanto varcato lo Stretto: si ritiene che questa sia una forma di spettacolo minore, relegata, ormai, solo ad essere attrazione folkloristica per turisti statunitensi o giapponesi pronti a stupirsi per tutto.

La storia antica di questa forma di rappresentazione ha radici lontane, che affondano nel racconto popolare dei cantari medievali che affascinavano con le gesta dei paladini di Carlo Magno, le loro imprese, i duelli, gli innamoramenti, i sortilegi, i tradimenti. I teatri – anche piccole baracche di legno improvvisate – si affollavano di ragazzi, uomini e donne che seguivano le vicende con appassionata partecipazione; alle voci ritmate dei pupi e ai tonfi metallici delle armi che sbattevano contro gli scudi di metallo (opera di artigiani bravissimi che lavoravano il rame e dipingevano i volti di legno), il pubblico fischiava, inveiva, gioiva di fronte ai suoi beniamini e a personaggi odiati. Si raccontava un tempo degli insulti contro Gano di Magonza, il traditore, “infame e cunnutu”.

Per riscoprire e anche rinnovare quel mondo pieno di fascino e nostalgia, per ricordare il centenario della morte di Nino Martoglio, per celebrare la nascita (anche questa cent’anni fa)  di una importantissima scuola di “pupari” catanesi, quella dei Fratelli Napoli, per offrire un piccolo omaggio al grande Turi Ferro (breve ma toccante citazione del “suo” Berretto a sonagli),  ma anche, e soprattutto, per regalare agli spettatori una bellissima festa in un luogo magico come la Corte interna di Palazzo Platamone – quella dedicata a Mariella Lo Giudice –  il teatro Stabile di Catania ha confezionato uno spettacolo unico, frutto di una equilibrata commistione di generi e linguaggi teatrali, antichi e moderni.

L’ultimo degli Alagona è un testo scritto da Nino Martoglio nel 1908, in italiano, per raccontare una di quelle importanti storie siciliane legate al passaggio epocale dall’età borbonica a quella sabauda, un tema gattopardesco, o derobertiano se preferiamo.

Il principe Don Blasco d’Alagona assiste incredulo ai cambiamenti che avvengono nella sua Palermo e nella sua stessa dimora, dove si compie una rivoluzione intestina perché suo figlio si unisce agli insorti che inneggiano alla libertà e perché si innamora di una popolana bella e ribelle.

Lo studio di ricerca e sperimentazione innovativa nato dalla riscrittura di Alessandro Napoli (la mente creativa della famiglia, il filologo che recupera e rilegge i testi che vanno dai cantari all’Orlando Furioso, ai cunti dei cantastorie di un tempo) l’artigianato di tutta la famiglia e la regia di Elio Gimbo hanno permesso di compiere un’operazione nuova, leggera, festosa ma di studiata perizia.

Il risultato è uno spettacolo che si anima e cresce poco a poco. Lentamente si presentano sul palco e si mescolano tre piani di narrazione paralleli: i pupi siciliani, in tutta la loro bellezza, personaggi in carne e ossa (tre attori davvero all’altezza, Francesco Bernava, Cinzia Caminiti e Lucia Portale), e dei narratori, affabulatori che danno voce ai pupi e ritmo, il ritmo incalzante, martellante che appartiene, appunto, a questo genere.

Inoltre c’è anche un riferimento, divertito, alla competizione tra Catania e Palermo, alla rivalità che riguarda tutto ciò che caratterizza le due città siciliane, ma soprattutto le scuole di pupi e pupari (come non pensare all’immenso Mimmo Cuticchio?) e c’è, anche, un espediente d’effetto divertente con il personaggio di un piccolo pupo catanese in trasferta a Palermo,  Peppinu do futtinu (u futtinu è uno dei quartieri più antichi della città, ndr) per conoscere e raccontare la storia degli Alagona, che riveste il ruolo di un narratore esterno, con degli “a parte” rivolti al pubblico per commentare e legare le vicende.

La si potrebbe scambiare per un’operazione di meta-teatro ma non lo è. Non lo è perché non ci sono dei piani diversi di rappresentazione, di finzione e apparenza: gli universi paralleli, gli esseri umani e le marionette, gli attori e i pupi si muovono sullo stesso orizzonte, dialogano, in una commistione tra voci e movimenti, tra classico e moderno. Anche le musiche scelte e alcuni costumi contemporanei arricchiscono il mosaico, quello che il regista chiama “un ermafrodito”; citazioni musicali che vanno dalle melodie antiche alle sonorità degli Inti-Illimani, al Clandestino di Manu Chao (scelto come simbolo di libertà).

Sul finale una scena ci ha colpito particolarmente, quando il pupo-Don Blasco sconfitto viene sistemato sulla poltrona (quella di Turi Ferro, del Berretto a sonagli) e, come nel capolavoro di Pasolini Cosa sono le nuvole, guarda il mondo parallelo, popolato di esseri viventi, e si affloscia, finito, inerme di fronte al mondo cambiato. “Noi c’eravamo molto prima di voi”.

Ma il teatro salva, unni c’è scuru fa lustru… cancia la faccia di stu munnu! (dove c’è buio fa luce, cambia la faccia di questo mondo), perché, alla fine, tutti,  “pupi siamo”.


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