Grazie a Papa Francesco e ad alcuni governi  (non asiatici) qualcosa forse si muove per la Birmania

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Dopo 106 giorni dall’inizio del colpo di stato, domenica scorsa, 16 maggio, Papa Francesco ha inteso richiamare al mondo la gravità e l’urgenza di una iniziativa per la Birmania, con una preghiera speciale e una Messa per la comunità birmana in Italia che si è tenuta nella Cattedrale di San Pietro.

A volte, noi cristiani, – ha detto tra l’altro Papa Francesco – cerchiamo il compromesso, ma il Vangelo ci chiede di essere nella verità e per la verità, per la propria verità, donando la vita per gli altri. E dove c’è guerra, violenza, odio, essere fedeli al Vangelo e artigiani di pace significa impegnarsi, anche attraverso le scelte sociali e politiche, rischiando la vita. Solo così le cose possono cambiare. Il Signore non ha bisogno di gente tiepida: ci vuole consacrati nella verità e nella bellezza del Vangelo, perché possiamo testimoniare la gioia del Regno di Dio anche nella notte buia del dolore e, quando il male sembra più forte.

Speriamo che le parole del Papa portino l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a votare  martedì 17 maggio a favore di un progetto di risoluzione non vincolante che chiede “una sospensione immediata” del trasferimento di armi alla giunta militare del Myanmar ed inoltre ai militari di “porre fine allo stato di emergenza” e fermare immediatamente “ogni violenza contro manifestanti pacifici”, nonché di “rilasciare immediatamente e incondizionatamente il presidente Win Myint, la consiglier di Stato Aung San Suu Kyi” e tutti coloro che sono stati “arbitrariamente detenuti, accusati o arrestati “dal colpo di stato del 1 febbraio”.

A differenza del Consiglio di sicurezza, le risoluzioni dell’Assemblea Generale non sono vincolanti, ma hanno un forte significato politico. Se non è possibile ottenere un’approvazione per consenso, l’intera Assemblea Generale – 193 Stati membri – voterà sul provvedimento.

Introdotta dal Liechtenstein, con il sostegno di Unione Europea, Gran Bretagna e Stati Uniti, la misura sarà discussa nella prossima riunione plenaria.  Per i paesi asiatici (un segnale profondamente negativo) solo la Corea del Sud ha appoggiato la risoluzione

Nell’inazione del Consiglio di Sicurezza e dell’ASEAN, che per altro dovrebbe nominare in settimana il proprio inviato speciale, alcuni segnali importanti vengono dal comunicato finale del recente G7 dei Ministri degli Esteri, che ha condannato il golpe e chiesto la liberazione di tutti i detenuti politici, l’interruzione delle violenze, e in qualche modo riconoscono il ruolo del neonato Governo di Unità Nazionale (NUG).  I ministri degli Esteri sono andati inoltre: “Confermiamo di essere pronti a compiere ulteriori passi se i militari non invertiranno la rotta. A tale riguardo, ci impegniamo a continuare a impedire la fornitura, la vendita o il trasferimento di tutte le armi, munizioni e altre attrezzature militari in Myanmar e la fornitura di cooperazione tecnica”.

Ancora più deciso il comunicato del Relatore speciale ONU per i diritti umani in Myanmar, Tom Andrews, che ha accolto positivamente l’appello delle organizzazioni della società civile per un embargo sulle armi alla giunta militare e ha incoraggiato gli Stati ad agire immediatamente: “Fermare il flusso di armi e di tecnologie dual use nelle mani della giunta militare del Myanmar è letteralmente una questione di vita o di morte. Non c’è tempo da perdere“, ha detto Andrews.

Un ulteriore presa di posizione è arrivata dagli esperti ONU che lavorano alla attuazione dei Guiding Principles on Business and Human Rights, hanno esortato le imprese internazionali a fare pressioni sui militari perché pongano fine alle loro gravi violazioni dei diritti umani.

Tra le richieste, un’azione urgente volta a tagliare i flussi di valuta estera alla giunta: “le imprese devono essere coerenti con le proprie responsabilità in materia di diritti umani“. A partire dalle imprese dell’Oil and Gas che versano gli utili alla giunta per oltre 1.5 miliardi di $ l’anno. Secondo il quotidiano francese Le Monde, l’estrazione di gas da parte della Total in Myanmar sostiene la giunta militare, dirottando i fondi dalle vendite di gas su conti offshore invece che nelle casse del governo.

L’approvazione o meno della risoluzione dell’Assemblea Generale ONU rappresenterà una cartina di tornasole della volontà reale degli stati di fermare la repressione, morti e gli arresti. Fino ad oggi le uccisioni sono salite a 790. Uccisioni gratuite come quella dell’attivista sessantenne Sein Win di Monya, nella Regione di Sagaing, morto dopo essere stato dato alle fiamme da un sostenitore della giunta. La stessa fine hanno fatto il poeta Kay Za Win e lo scrittore Kyi Lin Aye, assassinati a Monywa, come il poeta Khet Thi, ucciso la settimana scorsa mentre era agli arresti  a Shwebo, sempre nel Sagaing. A marzo anche il poeta Kay Za Win era stato arrestato e ucciso durante la detenzione. Oltre una dozzina di poeti sono stati arrestati per aver sostenuto l’opposizione al golpe.

A Myndat, città nel sud dello Stato Chin, tenuta dall’opposizione per una settimana, i militari hanno inviato rinforzi con 6 elicotteri per fermare il movimento di resistenza locale, il Mindat People’s Defence Force (PDF), ed ha utilizzato i residenti come scudi umani. Obbligando in questo modo i dissidenti a desistere, per evitare che i militari distruggessero la città. In questi scontri, le truppe del regime hanno usato armi pesanti tra cui i lanciamissili a spalla 8 morti tra i civili e 6 tra i militari. Una bambina di 10 anni è stata gravemente ferita mentre era nella sua casa Alcuni rapporti evidenziano anche che i militari hanno usato droni per sorvegliare la e identificare le posizioni dei combattenti della resistenza dall’alto.

Nelle altre città la normalità non è di casa anche per l’enorme impatto economico del colpo di stato.

Oltre 20.000 insegnanti che si sono opposti al regime militare sono stati licenziati, come pure 10.668 tra dipendenti delle università, ferrovieri (562), lavoratori del dipartimento dell’energia elettrica (4.983), del trasporto aereo (102) del MOGE: Myanmar Oil and Gas Enterprise (la holding militare che controlla il settore più redditizio del paese (792).  Secondo la CTUM, la confederazione sindacale birmana, questi funzionari e tecnici verranno sostituiti da personale militare, formato nelle università, accademie e scuole militari, in modo da consolidare il potere della dittatura. Gli attacchi. Militari hanno prodotto solo nello Stato Karen ben 40.000 rifugiati interni. Villaggi interi che sopravvivono di stenti nella giungla anche a causa della impossibilità per gli aiuti internazionali di raggiungere la Birmania dalla Tailandia.


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