Concetto Marchesi: “Perché sono comunista”

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Tra i tanti modi scelti dalle case editrici per ricordare il Partito Comunista Italiano a cento anni dalla fondazione, uno dei più originali è quello proposto dalla Sellerio di Palermo. Ha dato alle stampe, con il titolo “Perché sono comunista”, un’ampia, appassionata riflessione del grande intellettuale siciliano Concetto Marchesi. Riflessione articolata in tre parti e proposta ai suoi compagni di partito in tre diversi momenti storici: nel 1945, pochi giorni prima della Liberazione; nel febbraio del 1956 a Milano; nel dicembre dello stesso anno all’ottavo congresso del Partito.

Il titolo del libro ripropone integralmente quello dato alla relazione con cui Marchesi partecipò a Milano, ad una conferenza organizzata dall’Associazione ‘Amici di Rinascita’ (il mensile di Palmiro Togliatti) nel Teatro Nuovo. Luciano Canfora ha curato, nell’introduzione, la descrizione del contesto storico in cui avvennero quelle pubbliche confessioni del maggiore latinista italiano, famoso per la sua insuperata ‘Storia della letteratura latina’.

Antidogmatico, aperto all’incontro con altre forze politiche, convinto della convergenza anticapitalistica tra cristianesimo e comunismo, Marchesi espone con grande autorevolezza le sue idee senza preoccuparsi di non rispettare l’ortodossia, anche se, però, in modo contraddittorio non entra in conflitto con alcune delle tragiche scelte storiche dell’Unione Sovietica, come l’invasione dell’Ungheria avvenuta nel ‘56, l’”anno terribile”. Da un lato, quindi, il rispetto degli apparati di partito e della collocazione internazionale, dall’altro la rivendicazione della propria libertà di riflessione su temi che diverranno centrali molti anni più tardi, a partire, ad esempio , dal pontificato di Giovanni XXIII, fino a Berlinguer e a Papa Francesco.

Ecco alcuni esempi. “Nell’aprile del  ‘46, alla vigilia della prima grande consultazione elettorale, la parte sociale  (…) del programma democristiano era tutta plasmata in concorrenza con il Partito Comunista; e fra i clamorosi consensi dei convenuti (…) del comunismo si diceva, con le parole di Babeuf, ‘che esso era la testimonianza di un dovere non compiuto, di un compito non realizzato dal cristianesimo’ (pag.49). E il cattolicesimo ‘per le sue origine evangeliche, apostoliche, apologetiche, patristiche;  per il suo stesso spirito etico-religioso dovrebbe essere estraneo al mondo capitalistico’ (pag. 58). Se questo non avviene è solo ed esclusivamente per colpa delle gerarchie vaticane: ‘Oggi la Chiesa di Roma e il socialismo sono inconciliabili. Ma inconciliabili non sono socialismo e cristianesimo, socialismo e cattolicesimo’ (pag. 59).

Prima della conferenza di Milano, nel corso della quale pronunciò le frasi appena riportate, Concetto Marchesi affrontò, il 16 aprile del ‘45,  il delicatissimo tema  ‘La persona umana nel Comunismo.’ Lo fece partendo da un’analisi di quanto avveniva nell’antichità, per passare al poderoso contributo al cambiamento avvenuto grazie al Cristianesimo e infine al modo in cui la questione può e deve essere affrontata dai Comunisti. Afferma, tra l’altro: ‘A quanti annunciavano ed annunciano minacciate dal progredire delle forze proletarie  le più delicate e squisite esigenze dello spirito, abbiamo ripetuto e ripetiamo ancora che nessuna dottrina sociale, che nessun ordinamento di governo può, senza stoltezza, presumere di risolvere o di proclamare risoluti i problemi eterni dell’essere e della conoscenza; e che ogni tempio di religione può sorgere indisturbato e inviolato sulla terra quando esso corrisponda a quell’altro tempio che il saggio e il santo volevano elevato prima nel cuore dell’uomo’ (pagg.79-80). Tutto questo è possibile, dice ancora Marchesi, perché ‘Noi comunisti non possediamo una Bibbia e non abbiamo una verità rivelata iniziale e immutabile: la verità sentiamo quale assidua ricerca del pensiero, quale esigenza insaziabile dello spirito e quale dono continuamente operativo dell’arte’ (pag. 75).

Infine, nella sezione intitolata ‘Testamento politico’, Concetto Marchesi spiega come, secondo lui, dovrebbe svolgersi la vita di partito. Tra le tante proposte, ne cito due. La prima: ‘Noi comunisti non possiamo vivere isolati dentro il nucleo, per potente che sia, del nostro partito. La nostra opera non può consistere soltanto nell’accrescere il numero dei compagni. Essa deve guadagnarci la fiducia di quanti, pur disposti a condannare gli abusi e le convenzionali menzogne della classe dirigente, accolgono la calunnia anticomunista’ (pag. 97).

La seconda: ‘ (…) noi dobbiamo combattere l’idea diffusa che tutto nel nostro mondo comunista sia uggia, pesantezza, musoneria. Non è ufficio nostro coltivare la frivolezza buffonesca ma – non ridete, compagni – coltivare il sorriso sì. Sorriso vuol dire disposizione a più largo respiro, vuol dire comprensione, intelligenza, piacevolezza’ (pag.100).

Questo affermava Marchesi ai suoi compagni riuniti in congresso pochi mesi prima di morire. Un uomo proiettato al futuro, che comprendeva bene quale Italia si sarebbe dovuta costruire all’indomani della tragedia della guerra e del fascismo. Uno  dei tanti intellettuali che capirono la potenzialità di trasformazione che il PCI poteva rappresentare per la società italiana e che seppero ampliare la rigida disciplina dell’apparato di partito verso elaborazioni sociali culturali, politiche ed economiche di largo respiro. Fu una delle ragioni del grande successo popolare che quel partito ebbe. Poter leggere, oggi, le ricchissime e profonde riflessioni di un intellettuale di quello spessore ci può servire da lezione per capire che bisogna ritornare a discutere, incontrarsi, studiare, piuttosto che appassionarsi soltanto agli agoni dei salotti televisivi.


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