Non è la somma che fa il totale. Lettera all’Agcom

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Sono convinto che nella crisi della democrazia, soprattutto nel nostro paese, pesi parecchio anche la cattiva qualità dell’informazione. Anzi direi che a quest’ultima corrisponde, con equazione senza incognite, una cattiva qualità della politica. Il problema si avverte principalmente per il giornalismo televisivo, per vari motivi che sarebbe lungo analizzare, ma che ritrovano una delle ragioni di fondo nell’affermarsi sregolato di un duopolio politicizzato e partigiano, con tutto quel che ne segue per l’autonomia di testate e giornalisti. Quando fu varata durante il primo governo Prodi, con molta timidezza per la verità, l’Autorità di garanzia aveva anche il compito di vigilare sul sistema e garantirne il corretto funzionamento. I risultati purtroppo non sono stati all’altezza delle speranze. Del resto il meccanismo di nomina politica dell’ente non poteva non pesare su alcune incertezze nella gestione di un ruolo così delicato. Una modalità assolutamente da rivedere perché mina alla radice l’autonomia del Garante: e non è stato per niente bello vedere il passaggio dei suoi membri, come purtroppo anche di recente, direttamente dai banchi parlamentari ad un ruolo di garanzia! Ma questa è un’altra storia.

Vorrei a questo punto porre alla nuova Agcom presieduta da Lasorella alcune questioni che ritengo importanti. Prima questione, il pluralismo: l’Autorità lo valuta sulle varie forze in campo mettendo al centro del monitoraggio i loro tempi di esposizione. La cosa poteva valere al tempo dei partiti di massa come li abbiamo conosciuti, ma non vale più oggi nell’era della personalizzazione estrema della politica e dei partiti personali: non ha più senso infatti misurare il pluralismo solo sul tempo concesso ai partiti tralasciando quello riservato ai leader, quando oramai i primi parlano soprattutto con le facce e i corpi dei secondi. Così facendo dietro un apparente pluralismo si rischia di mascherare gravi iniquità, come succede ad esempio, tanto per fare dei nomi, con la Lega il cui tempo di parola, pur quando proporzionato a quello delle altre forze, è in realtà occupato per gran parte da Salvini. Se però accade che per gli altri partiti un tempo eguale si frazioni tra molti esponenti, è intuibile lo squilibrio, anche grave. In questo caso, ricordando Totò, è il caso di dire che non è la somma che fa il totale. Un partito che parla in tv quasi sempre con la bocca di un leader si presenta unito, determinato, capace di decidere; se invece lo fa con un carosello di dichiarazioni la sensazione trasmessa è l’esatto contrario. Se poi aggiungiamo la considerazione che oggi sono i leader, più che le ideologie, a costruire consenso e voti, si capisce che questa modalità informativa non è affatto pluralista. Il tema è noto al garante visto che da un paio di anni l’Agcom pubblica meritoriamente in coda alle sue tabelle mensili una classifica del parlato dei primi venti politici nei tg e nei programmi, ma adesso sarebbe il momento di trarne le conseguenze.

Anche sottolineando le clamorose disparità nelle varie reti e sanzionandole. Seconda questione, l’audience: è legata alla prima e riguarda i programmi perchè una cosa è comparire in un talk popolare dagli altissimi ascolti, altra in uno di nicchia. Occorre tenerne conto (ci sono le condizioni tecniche) se si vuole davvero parlare di pluralismo. Terza questione, le sanzioni: il sistema appare attualmente abbastanza inadeguato perché cura spesso con pannicelli caldi malanni gravi, magari con misure che giungono a ‘babbo morto’, cioè quando il danno è stato fatto senza possibilità di una riparazione. Multe o altro a questo punto poi pesano poco come la storia in questo campo ci insegna. Un’ultima faccenda, i talk: non meno stringente delle altre perché attraverso essi passa la gran parte dell’informazione politica ed è qui che si consumano le maggiori nefandezze in fatto di pluralismo. Qui davvero occorrerebbe un’azione del garante più incisiva e pesante. La compagnia di giro di politici e giornalisti che va in scena è frutto certo di un mix legittimo di dinamiche partigiane e di spettacolo, ma non è tollerabile che ci sia chi si ritaglia la parte del leone ed è sempre sulla scena, e chi invece, politico o giornalista, sulla scena non è mai chiamato, nemmeno per errore.

Accanto a tutto ciò c’è, quanto mai delicata ma fondamentale ai fini del discorso, la questione della par condicio. Ora, ben lungi dal tempo in cui c’era pure nell’opinione pubblica più attenta chi pensava di abolirla, anche qui siamo di fronte ad un mutamento che impone la revisione di una norma pensata quando le campagne elettorali avevano un inizio ed una fine. Ormai non è più cosi, immersi come siamo, e come ci spiegano gli studiosi della materia, in una permanent campaign, quotidianamente esposti ad una competizione ininterrotta con i politici in video da mane a sera sia nei programmi d’informazione che nei leggeri o in quelli sportivi. La par condicio così com’è non può più fare da argine. Occorre una par condicio, come dire, anch’essa permanente, che con flessibilità normi però per tutto l’anno la corsa delle reti a chi più sfregia il pluralismo. Basta guardare i dati che proprio l’Agcom fornisce ogni mese per accorgersene. Metterci mano è essenziale se vogliamo avere un dibattito pubblico che aiuti la crescita della democrazia più che isterilirla in una recita. Tra l’altro a parti diseguali.


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