Il tentato putsch di Trump. Harakiri di una democrazia?

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Il giorno dopo l’11 Settembre del 2001, con la distruzione delle Torri Gemelle a New York da parte dei terroristi islamici di Al Qaeda di Osama Bin Laden, ci sentimmo e scrivemmo “Siamo tutti americani”: un commosso atto di solidarietà, di empatia umana verso le 3 mila vittime.

Gli Stati Uniti per la prima volta conobbero un atto di “guerra sporca” sul proprio territorio. La democrazia più autorevole del mondo era stata violata e la risposta fu dura, ampia e prolungata.

In questo 6 Gennaio del 2021 a Washington, nel centro vitale della politica americana, è crollata un’altra “Torre d’avorio”: l’inviolabilità delle istituzioni e il processo democratico di transizione tra un presidente uscente, il putschista Trump, sconfitto senza imbrogli, e il presidente eletto Joe Biden.

“Così muore una democrazia”?

Il tentato putsch, organizzato nelle settimane scorse e istigato da Trump nel comizio della mattina del 6 Gennaio, poi trasformatosi in una marcia di facinorosi e criminali contro Capitol Hill, mentre si teneva la decisiva riunione per la ratifica dell’elezione di Biden a presidente, suona come un allarme terrificante.

Siamo, purtroppo, all’ultima spiaggia, prima che la democrazia americana affondi contro di sé la lama ben affilata dell’harakiri, per un suicidio annunciato da troppo tempo e da troppi osservatori sottovalutato.

L’auspicio, invece, è che gli americani ritrovino le forze ideali e politiche per risvegliare quell’orgoglio di nazione libera ed esportatrice di diritti e ideali, che nel secolo scorso li vide protagonisti per ben due volte come alleati di una parte dell’Europa dilaniata dalle guerre mondiali, per riportare la pace e il conseguente riscatto economico e sociale del “vecchio continente”.

Perché parlare di putsch e non di golpe?

Perché siamo di fronte ad una rivolta ordita da un presidente repubblicano “trombato” legittimamente a novembre scorso, con oltre 5 milioni di voti di differenza a favore del suo rivale democratico, e compiuta da alcune migliaia di persone, che hanno fatto irruzione negli edifici storici del potere politico democratico, malamente armati e senza nessuna tecnica né terroristica né di guerriglia. Molti si facevano selfie, altri si lasciavano riprendere in pose e atteggiamenti buffoneschi.

Attenzione però, non è stata una manifestazione di “patrioti americani”, come li ha definiti la figlia di Trump, Ivanka, ascoltatissima consigliera del padre, e che il Donald in un delirio di onnipotenza ha ringraziato: “vi voglio bene, siete speciali”.

Queste migliaia di “patrioti trumpiani” sono solo la punta dell’iceberg di milioni di elettori delle zone più retrive degli Stati Uniti. Quelli che credono che i disoccupati bianchi sono in forte aumento, perché gli immigrati messicani rubano loro i posti di lavoro; che la pandemia del Covid 19 è stata introdotta dai cinesi per far precipitare gli USA in una crisi tremenda; che il risultato del 3 novembre “è stato orchestrato all’ambasciata di Roma”, attraverso la società Leonardo, l’industria controllata dallo stato produttrice di sistemi d’arma sofisticati e di satelliti.

“Avremo un presidente illegittimo, non possiamo permetterlo”, aveva urlato nel comizio mattutino, arringando alla folla dei suoi sostenitori: “non concederemo mai la vittoria. Oggi non è la fine. È solo l’inizio. Fermeremo il furto”. E poi li ha esortati ad andare a mostrare la loro forza a Capitol Hill con la sua benedizione.

Ma dopo l’assalto fallito, nonostante la tenue resistenza delle forze dell’ordine, i feriti, almeno una donna morta, il presidente putschista ha addirittura insistito con i suoi toni ambigui: “Queste sono le cose che accadono quando una vittoria elettorale schiacciante viene portata via senza cerimonie e brutalmente ai nostri patrioti, che sono stati trattati male e ingiustamente per così tanto tempo”. Non ha condannato chiaramente gli atti violenza commessi dai suoi supporter al Congresso, anzi li ha vezzeggiati amorevolmente con uno dei suoi abituali “cinguettii” su Twitter: “Torna a casa con amore e in pace. Ricorda questo giorno per sempre!”.

In questi 15 giorni, tutto può accadere. Quello che è successo appare più come una prova generale, in vista di altri tentativi violenti, per impedire il regolare passaggio di consegne entro il 20 gennaio prossimo nelle mani di Biden, che tra l’altro ora potrà contare anche sulla doppia maggioranza al Congresso e al Senato.

Negli Usa stime ufficiali hanno certificato nel 2018 che circolano 270 milioni di armi per la difesa personale e da guerra (il 42% di quante ne esistono nel mondo), in mano a quasi 70 milioni di abitanti. E i suprematisti elettori fedelissimi di Trump hanno già sfilato in cortei armati di tutto punto!

Certo, potrebbe anche sembrare un colpo di coda di un ex-imprenditore sull’orlo del fallimento, inseguito da una mezza dozzina di inchieste giudiziarie a sfondo fiscale, che appena persa l’immunità presidenziale rischia di essere incriminato ed arrestato.

Ma a questo punto, se il sistema democratico americano vuole risollevarsi e allontanarsi dal baratro. Se le istituzioni liberali vorranno ritornare ad essere rispettate e riguadagnare l’onore perduto in questo quadriennio trumpiano, gioco forza la nuova amministrazione e la giustizia dovrebbero incriminare Trump per questi suoi atteggiamenti irresponsabili, perché hanno minato le fondamento dello stato.

Solo così, anche l’elettorato moderato repubblicano potrò ritrovare vigore e i propri rappresentanti riguadagnare gli spazi di agibilità nel Grande Vecchio Partito, il GOP.

Infine, quello che sta succedendo dai primi di novembre ad oggi, dimostra ancora una volta, l’assurdità dell’anacronistica regola istituzionale per la quale il presidente eletto il 4 novembre deve attendere due ratifiche dai Grandi elettori e dal Congresso unito, per poi insediarsi il 20 gennaio.

Un periodo enorme di “terra di mezzo” nel quale, come abbiamo visto, un ex-presidente putschista può fare di tutto, pur non essendo più elettoralmente un presidente: nominare un giudice di sua fiducia alla Corte suprema federale, cambiare ministri, vertici delle forze armate e dei servizi di sicurezza, decretare amnistie a favore di persone del suo entourage, sotto inchiesta per reati pesanti, legiferare embarghi e imporre diktat contro nazioni ritenute ostili geopoliticamente o concorrenti sul piano economico.

Risiede purtroppo anche in questi formalismi arcaici il “male oscuro”, che rischia di portare al collasso una delle più antiche democrazie del mondo.

 

 

 


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