I trentacinque giorni di Mirafiori

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Quarant’anni e nulla è stato più come prima. Quarant’anni e si impone una profonda riflessione sull’Italia di ieri e quella di oggi. Quarant’anni: è questo il lasso di tempo che è trascorso dal 14 ottobre 1980, quando quarantamila quadri della FIAT,  stanchi della paralisi della fabbrica che si protraeva ormai da trentacinque giorni, si riversarono per le strade di Torino e consentirono, di fatto, ad Agnelli e Romiti di vincere la battaglia contro i sindacati e i metalmeccanici in lotta contro le richieste dell’azienda. Liceziamenti, casa integrazione a zero ore, ridimensionamento industriale, riorganizzazione aziendale: erano anni duri, anni di crisi, con la lira sempre sull’orlo dell’abisso e la discussione sull’austerità che squassava le forze politiche e, in particolare, il PCI.
Erano finiti, purtroppo per sempre, i trenta gloriosi del modello keynesiano. Si stava facendo strada il liberismo selvaggio della Scuola di Chicago e anche in Italia si cominciavano ad avvertire le conseguenze del dilagare di quel modello che avrebbe avuto nel duo Reagan-Thatcher i propri massimi interpreti e nell’ideologia dominante negli anni Ottanta la propria concreta applicazione.
La sconfitta operaia a Torino fu totale, tragica, devastante. Erano finiti gli anni della passione civile e dell’impegno, stava cominciando il riflusso e anche i giovani stavano cominciando a cedere all’impulso del consumismo.
Come intuì subito Alfredo Reichlin, all’epoca direttore dell’Unità, la sconfitta di Torino (e, ahinoi, dello stesso Berlinguer, la cui partecipazione alla lotta fuori dai cancelli di Mirafiori rimane comunque un capolavoro di coraggio e dedizione alla causa dei lavoratori) fu uno spartiacque. Esiste, infatti, un prima e un dopo: nelle relazioni sindacali, nei rapporti di forza e persino nell’approccio umano. C’era una volta il padronato, oggi c’è lo schiavismo o qualcosa di simile. C’era un volta una famiglia imprenditoriale di antica tradizione e nobiltà, al netto del legittimo dissenso, mentre oggi, a livello mondiale, la tendenza è il ritorno all’Ottocento. C’erano una volta gli Agnelli, con l’Avvocato che invitava allo stadio Lama in virtù della comune passione juventina, e c’è oggi il disprezzo reciproco di mondi che non riescono più a dialogare. C’era una volta una politica capace di mediare, manfestare e svolgere un ruolo di interposizione e composizione dei conflitti sociali mentre oggi la politica è sostanzialmente assente, priva di una visione, di un’ideologia o anche solo di un’idea per rilanciare il Paese.
Mirafiori costituisce, pertanto, un punto di non ritorno di cui, secondo me, negli anni si sono pentiti persino i vertici della FIAT, avendo condotto l’Italia in una spirale dalla quale non si è più ripresa. Certo, all’epoca la lotta in fabbrica era durissima, c’era il fenomeno brigatsta e non possiamo dimenticare l’assassinio del vice-direttore della Stampa, Carlo Casalegno, ma i rapporti umani vennero mantenuti comunque civili, come hanno riconosciuto molti dei protagonisti di allora, su un versante e sull’altro.
Come sempre accade quando si crea uno squilibrio, in quella drammatica battaglia persero tutti. Persero gli operai ma anche i quadri, l’azieda, il Paese. Se fosse stato raggiunto l’accordo sulla cassa integrazione a rotazione, giudicato da tutti il compromesso migliore fra le parti, probabilmente la nostra vicenda nazionale sarebbe stata diversa. Quarant’anni dopo ci resta, invece, solo il rimpianto di una lunga e devastante incomprensione.

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