Tortura e dintorni, il germe autoritario aleggia nelle democrazie. Intervista a Luigi Manconi dopo i casi di Torino e Piacenza

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Pronunci la parola “tortura” ed è subito Medioevo, dittatura sudamericana, fascismo e i suoi germi resistenti anche dopo 80 anni dalla fine. A distanza di poche ore il reato di tortura è stato contestato alla polizia penitenziaria del carcere di Torino e ai carabinieri della caserma Levante a Piacenza, nei giorni in cui tornava vivido il ricordo di cosa accadde a Genova durante il G8. E sembra che qualcosa di più grave e profondo dei singoli episodi stia scuotendo la democrazia italiana. Chi non ha mai smesso di richiamare l’attenzione sul rischio di sottovalutazione dei soprusi che avvengono in molte, troppe, circostanze è Luigi Manconi che da una vita si dedica alla difesa dei fragili, specie quando i fragili sono davanti ad istituzioni deviate. E in Italia, purtroppo, è accaduto spesso, accade tuttora.

Ripartiamo dall’inizio, da quel dibattito attorno alla legge sulla tortura che non le piacque perché indebolita in modo eccessivo. Adesso quelle affermazioni, quei timori, sono diventati di drammatica attualità

“Purtroppo ciò che dicevamo allora si sta dimostrando vero, avevamo ragione a parlare di un impianto debole della legge. Non si ebbe il coraggio di creare un testo incisivo e, d’altro canto, la politica da troppi anni si disinteressa di queste cose, di ciò che accade nelle forze di polizia. Ed è un grave errore che poi si paga. Torniamo al significato della parola tortura, essa avviene tutte le volte in cui persone che hanno legittima titolarità a incidere sulla libertà di altre persone esagerano, ossia abusano del loro ruolo con azioni coercitive, violenze fisiche o anche psicologiche. La tortura, come ci ricordano i giuristi, è un reato cosiddetto ‘proprio’ ossia può essere consumato solo da pubblici ufficiali in quanto strettamente legato all’abuso del loro potere. E infatti abbiamo visto cosa è accaduto a Torino e a Piacenza, sono vicende assai simili, direi sovrapponibili”.

Ci risiamo anche col termine “mele marce” quasi a voler arginare il bubbone

“Francamente non capisco il perché di un tale distinguo. Ma chi è che dice che in Italia ci sono centomila torturatori? Nessuno io credo, a meno che non si voglia essere razzisti e identificare il reato con la categoria. Se poi richiamando il luogo comune delle ‘mele marce’ si vuole in qualche modo arginare il problema, allora è un’altra storia. Il punto è, semmai, un altro, ossia il silenzio che si è avuto da parte dei vertici delle forze coinvolte”

Ma se qualche mela marcia contamina il resto del paniere? Che accade?

“Facciamo un po’ di ordine. Anzitutto gli episodi sono tanti, sono davvero troppi e si susseguono a stretto giro temporale. Noi conosciamo quelli che vengono alla luce ma non sappiamo esattamente quanti sono, perché spesso vige un cameratismo, una solidarietà interna ad alcuni apparati o pezzi di apparati che rende difficilissimo sapere la verità. Poi, certo, una mela marcia può infettare le altre, ma soprattutto le mele marce di cui stiamo parlando in queste ore in relazione alle vicende di Torino e Piacenza hanno trovato solidarietà nella catena di comando, nelle gerarchie. Ci sono stati dirigenti e funzionari che hanno protetto gli atti di violenza e gli abusi. Non solo. Si è alzato un muro di omertà che ha funzionato da protezione per chi quegli abusi li commetteva, fin quando non si è aperto un varco, una smagliatura. Ma la complicità e la connivenza debordano nel fascicolo giudiziario. Finché non c’è stato uno che ha parlato io non ho letto denunce, non ho visto rapporti dei superiori. Debbo, come cittadino, chiedermi perché”.

C’è, secondo lei, un germe superstite del fascismo, del codice Rocco che ancora ci perseguita, sopravvissuto a 80 anni di democrazia?

“Mah, intanto si sta parlando di corpi dalla forte impronta maschile e maschilista dove ci sono anche molte storie di nonnismo, dove la convivenza gerarchica è difficile e dove, soprattutto, si realizzano aggregati di potere, un potere che viene esercitato anche all’interno oltre che all’esterno. Del fascismo ci sono tracce, certo: in alcuni simboli, riti, fotografie, frasi, atteggiamenti che rimandano al fascismo, almeno in alcune frange e situazioni. Non si può negare”
Tutto questo fa Sud America?

“Io dico che all’interno delle società democratiche si annidano apparati che non accettano le regole della democrazia, la quale deve lottare ogni giorno per resistere alle derive dittatoriali e di negazione dei diritti”.

Siccome in Italia si approvano leggi e riforme sull’onda dell’emotività, pensa che anche questa volta si potrà correggere qualcosa?

“Non lo so e non credo, per quel disinteresse della politica di cui si diceva all’inizio. Ad ogni modo penso che serva più coraggio da parte delle forze di polizia nell’immettere trasparenza e controllo al loro interno, coraggio nel denunciare prima ciò che accade senza aspettare un caso-Piacenza per fare dichiarazioni. Io non ho sentito nulla prima degli interventi, drastici, delle Procura di Torino e Piacenza. Ciò deve far riflettere in primis i vertici delle forze dell’ordine”.

Nella foto Luigi Manconi


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