L’arma del diritto del Tribunale Permanente dei Popoli

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di Andrea Mulas. Ricercatore Fondazione Lelio e Lisli Basso

«Un giorno ci si avvide che, oltre a tutto il resto, faceva anche cambiare il colore dei cristiani: i minatori erano variopinti; il fumo propose varianti: facce rosse, facce verdi, facce gialle. E se una faccia blu si univa in matrimonio con una faccia gialla, ne nasceva una faccia verde. […] La “Cerro de Pasco Corporation” fece affiggere un bollettino su tutte le cantonate: il fumo non faceva male». Così lo scrittore peruviano Manuel Scorza denunciava nel 1970 l’occupazione prepotente delle terre e l’industrializzazione selvaggia operata dalla multinazionale a scapito dei popoli indigeni, in uno dei suoi più avvincenti romanzi, Rulli di tamburo per Rancas. All’epoca diversi diritti potevano essere calpestati senza che l’opinione pubblica mondiale ne venisse a conoscenza.

Anche con questo compito il 24 giugno 1979 a Bologna s’insediava il Tribunale Permanente dei Popoli, un tribunale internazionale d’opinione privo di poteri giuridici, ovvero lo strumento attraverso il quale i popoli avrebbero potuto denunciare a livello internazionale i crimini cui erano indebitamente sottoposti da regimi o da governi. Dopo l’esperienza del Tribunale Russell II, che nell’arco di tre sessioni qualche anno prima si era occupato delle violazioni dei diritti umani perpetrate in America latina, con il Tpp si ribadiva la possibilità di usare “l’arma del diritto” in favore dei popoli che esigevano la libertà (per dirla con Lelio Basso), richiamandosi al principio di autodeterminazione formulato nelle Risoluzioni 1514 (XV) del 1960 e 2625 (XXV) del 1970 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Quest’ultima, denominata Carta di Algeri, era stata presentata il 4 luglio 1976 e rappresentava un’«arma di lotta per la liberazione effettiva dei popoli».

Come previsto dall’art. 1 dello Statuto: «Il Tpp giudica in merito a ogni tipo di violazione grave e sistematica dei diritti dei popoli» e la sua missione consiste nel «promuovere il rispetto universale ed effettivo dei diritti fondamentali dei popoli, determinando se tali diritti sono violati, esaminando le cause di tali violazioni e denunciando all’opinione pubblica mondiale i loro autori» (art. 2).

Negli anni questa è sempre stata la funzione specifica del Tribunale Permanente dei Popoli, come ha sottolineato il giurista Salvatore Senese, «una struttura permanente per dare voce a quanti si battono contro concrete situazioni di negazione dei diritti sanciti dalla Carta di Algeri» che all’articolo 4 recita: «Nessuno, per ragioni di identità nazionale o culturale, può essere oggetto di massacro, di tortura, persecuzione, deportazione, espulsione, o essere sottoposto a condizioni di vita tali da compromettere l’identità o l’integrità del popolo a cui appartiene».

Si capisce che con la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli era stata avviata una specie di rivoluzione copernicana, in quanto i giuristi impegnati nella sua stesura avevano ribaltato l’approccio fino ad allora esistente, ovvero i popoli erano finalmente divenuti soggetti di storia e non più oggetto di cronaca, superando così la subalternità di quei popoli alle molteplici espressioni del potere, le cosiddette «stigmate dell’evento coloniale» le aveva definite Alain Rouquié. Un retaggio storico che sociologicamente Paulo Freire ha definito il «mutismo brasiliano» o «cultura del silenzio» e che analizza in questi termini: «la società cui è negato il dialogo (comunicazione) e che al posto del dialogo riceve dei comunicati, mescolanza di coercizione e elargizione, diventa necessariamente muta». E ancora, ha spiegato il pedagogista brasiliano: «Tra di noi […] predominò il mutismo dell’uomo, la sua non partecipazione alla soluzione dei problemi comuni. A causa del tipo di colonizzazione che abbiamo subito, ci è mancata del tutto l’esperienza della vita comunitaria. Oscillavamo tra il potere del signore delle terre e quello del governatore.

Con il Tribunale Russell II prima e il Tribunale Permanente dei Popoli poi è stata data voce a coloro cui mai era stata data la parola. Con le sue 47 sessioni e sentenze, il Tribunale ha accompagnato le trasformazioni e le lotte che hanno caratterizzato la fase post-coloniale, lo sviluppo del neocolonialismo economico, la globalizzazione, la ricomparsa della guerra e la dichiarazione di non competenza della Corte Penale Internazionale rispetto ai crimini economici.Solo per citare alcuni procedimenti: Amazzonia, Chernobyl, Bhopal, ex Jugoslavia, Tibet, Armenia, Afghanistan e coì via.Per fronteggiare le nuove sfide globali il Tpp, la cui funzione principale è mobilitare la coscienza civile contro le violazioni sistematiche dei diritti delle persone e dei popoli facendo assumere consapevolezza del loro carattere criminale, ha formulato la categoria dei “crimini di sistema”, per qualificare gli effetti tragici di politiche e di scelte economiche che sacrificano diritti fondamentali.

Le violazioni dei diritti delle persone e dei popoli derivano non soltanto da azioni e omissioni, ma anche, più in generale, dalla supremazia dell’economia e del mercato sulla politica, dalla crescita delle disuguaglianze, dall’assenza di politiche di genere, dall’incontrollato sviluppo industriale, dalle devastazioni ambientali, da politiche xenofobe e razziste.

Non si tratta di interpretazioni storiche visionarie, ma fatti che riguardano persone e popoli, diritti e democrazia.Si pensi ad esempio alla Sessione del 2018 che si è occupata delle violazioni dei diritti umani dovute all’uso della tecnica del fracking, la fratturazione idraulica delle rocce del sottosuolo per estrarre idrocarburi. Secondo i giudici del Tpp «i processi di fracking contribuiscono in maniera sostanziale a provocare un danno per l’uomo, aggravando il cambiamento climatico e il surriscaldamento globale e mettendo in atto violazioni di massa di una serie di diritti umani sostantivi e procedurali e i diritti della natura». Ancora più recenti le tre Sessioni relative alle violazioni dei diritti delle persone migranti e rifugiate (2017, 2018 e 2019), tematica quanto mai attuale se si pensa ai quasi 80 milioni i rifugiati nel mondo e ai fenomeni che interessano diverse regioni, quali nuove forme di schiavitù, movimento dei popoli, disastri ambientali, appropriazione delle risorse naturali, crisi alimentari, persecuzioni razziali o religiose. Per sensibilizzare le istituzioni mondiali e le coscienze il 20 giugno si celebra la giornata indetta dall’Onu per ricordare chi scappa da violenze e conflitti.

Da confronti

 

 


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