I movimenti di liberazione portoghesi e l’incontro con Paolo VI

0 0
Il 1 luglio 1970 papa Paolo VI incontrava in Vaticano i leaders dei principali movimenti di liberazione dalle colonie portoghesi, Agostinho Neto che guidava il Mpla (Movimento Popular de Libertação de Angola), Marcelino dos Santos a capo del Frelimo (Frente de Libertação de Moçambique) e Amílcar Cabral, segretario generale del Paigc (Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde), che in quel periodo erano impegnati in un’unica battaglia per il rovesciamento della dominazione coloniale portoghese e l’instaurazione di società libere. L’udienza privata, organizzata nei minimi dettagli, giungeva al termine della “Conferência Internacional de Solidariedade para com os Povos das Colónias Portuguesas” che si era tenuta a Roma dal 27 al 29 giugno cui avevano aderito 177 organizzazioni politiche, sindacali e religiose in rappresentanza di 64 paesi. 
di Andrea Mulas. Ricercatore Fondazione Lelio e Lisli Basso

Si trattò di uno degli eventi più importanti – ma poco noto – della storia dei paesi del Terzo Mondo del secondo Novecento. Frutto della feconda collaborazione fra organizzazioni di diverso orientamento politico e intellettuale, il positivo esito della Conferenza rifletteva la convergenza di posizioni e interessi di quadranti politici diversi che confluirono nella solidarietà anticoloniale, un dato, questo, che si rispecchia nell’eterogenea composizione del comitato italiano: ne facevano infatti parte Ferruccio Parri, Lucio Mario Luzzatto, Lelio Basso, oltre alla determinante collaborazione di Dina Forti e Marcella Glisenti, all’epoca direttrice della Libreria Paesi Nuovi, storico punto d’incontro dei terzomondisti italiani. L’anticolonialismo italiano giocò un ruolo importante nella geografia della ricezione del problema delle colonie portoghesi – e dei movimenti di liberazione nazionale in generale – da un punto di vista politico e culturale, contribuendo alla legittimazione internazionale dei movimenti di liberazione contro il colonialismo lusitano e alla diffusione della cultura di quei popoli grazie soprattutto alle molteplici attività di Joyce Lussu e Giovanni Pirelli. L’impegno dell’intellettuale torinese nella causa dell’indipendenza algerina quasi un decennio prima era culminato con la traduzione e pubblicazione per Einaudi de I dannati della terra impreziosito dalla prefazione di Jean-Paul Sartre, cui anni dopo seguiranno le Opere scelte di Frantz Fanon. 

Esattamente dieci anni prima la Conferenza romana, il 30 giugno 1960, giorno in cui il Congo otteneva l’indipendenza, il neo Primo ministro Patrice Lumumba aveva ammonito le élites europee: «Chi potrà mai dimenticare che a un nero ci si rivolgeva con il tu, non perché fosse un amico, ma perché il voi era riservato solo ai bianchi». La “Conferenza internazionale di solidarietà con i popoli delle colonie portoghesi” aveva superato questo schematismo regalando respiro internazionale alle lotte dei tre protagonisti delle maggiori rivoluzioni coloniali Neto, Cabral e dos Santos e rompendo quello che il leader guineano aveva definito il «muro di silenzio elevato intorno ai nostri popoli dal colonialismo portoghese».

La scelta di papa Montini, che causò un incidente diplomatico con il Portogallo, rappresentava un segnale chiaro e inequivocabile come emerge con forza dalle parole di Cabral: «L’udienza ha provocato un grande spaesamento negli ambienti governativi e ecclesiastici portoghesi, provando un impatto salutare nelle coscienze dei cattolici del Portogallo e del mondo, alcuni dei quali ancora pretendono di ergersi a “difensori della civiltà cristiana e occidentale”, anche se cercano di soffocare nel sangue e con il napalm le legittime aspirazioni del nostro popolo alla libertà, alla giustizia e al progresso verso l’indipendenza. Il fatto che l’udienza sia stata una grande vittoria politica e morale del nostro Partito e degli altri movimenti di liberazione delle colonie portoghesi dispensa ogni commento».

Per la prima volta nella storia un papa incontrava i capi di movimenti guerriglieri che peraltro stavano combattendo contro il “cattolicissimo” Portogallo governato da un regime, le cui gerarchie cattoliche, erano state sempre dalla parte del colonialismo con rarissime eccezioni. Ha ricordato Marcella Glisenti che quando alla fine della seconda giornata dei lavori «andai al tavolo della presidenza per dire a Cabral che Paolo VI lo avrebbe ricevuto in udienza privata con Dos Santos e Neto due giorni dopo la conclusione della Conferenza, mi disse: “ecco il primo giorno della nostra creazione come nazione”. Il leader del Paigc riconosceva a papa Montini la forza del suo impegno a fianco dei popoli africani: «La conferenza di Roma e l’udienza con papa Paolo VI hanno segnato una tappa nuova della nostra lotta sul piano internazionale perché ha causato nel nemico colonialista uno spaesamento che non ha saputo nascondere».

La ripercussione avuta dall’udienza sul piano internazionale dimostrava il suo valore storico tanto per la lotta dei popoli quanto per il prestigio della Chiesa in Africa e nel mondo, anche dovuto dal fatto che Paolo VI donò ai leaders africani un libro di Giovanni XXIII e una copia dell’Enciclica Populorum Progressio chiedendo ai tre uomini, ha svelato successivamente il cardinale Achille Silvestrini, di non entrare in questioni politiche, «ma conosciamo la vostra aspirazione. La Chiesa, a questa aspirazione, non solo dà la sua simpatia, ma anche il suo sostegno». Un filo collegava dunque l’azione pontificia montiniana dal discorso tenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 4 ottobre 1965, nel quale aveva fatto propria la «voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso», all’omelia pronunciata in terra colombiana il 23 agosto 1968, dove aveva denunciato senza mezzi termini le «inique sperequazioni economiche tra ricchi e poveri» e gli «abusi autoritari» indicando quale via d’uscita un «nuovo ordine più umano».

Quindi il messaggio lanciato dalla Santa Sede il 1 luglio di cinquant’anni fa era chiaro. Veniva confermata la linea post-conciliare come abbiamo visto già delineata qualche anno prima a favore degli oppressi popoli latinoamericani e cristallizzata nell’enciclica, documento che, aveva scritto padre Gustavo Gutiérrez, risuonò come una tromba in America latina in quanto chiedeva maggiore giustizia, ed esortando al contempo lo «sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza». L’Enciclica avrebbe incoraggiato la chiesa sudamericana ad approfondire il nuovo messaggio della teologia della liberazione che sarà poi riformulato, reinterpretato e declinato da diversi teologi, pedagogisti e religiosi in tutto il subcontinente, superando il vacuo concetto di “sviluppo” (“desarrollo”) che fino ad allora aveva ingessato il subcontinente.

 

Da confronti

 

 


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21