I mestieri del cinema: Fellini e il trucco

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Non lasciamoci fuorviare da un termine che ormai appartiene alla cosmesi femminile; nel cinema il trucco è proprio ciò che il suo nome dichiara, cioè alterazione, inganno, trasformazione.  Il dottor Jekyll diventa Mr. Hyde grazie al trucco. Il trucco cambia i connotati.

Già la maschera greca, in latino ‘persona’, può essere considerata un trucco, che con varianti meno pesanti si protrae in teatro fino all’età moderna. Quando non esisteva ancora l’elettricità e sulla scena l’illuminazione era affidata alle fiaccole di quinta, o alle fiammelle schermate sull’orlo del proscenio, “limelight”, luci della ribalta, la luce irraggiando dal basso creava ombre deformanti e vagamente sinistre sul volto degli interpreti. I quali per essere meglio visibili anche a distanza, caricavano il trucco amplificando le espressioni del volto; cioè spargevano sul viso la biacca gessosa, sulla quale stendevano il carminio per colorire le guance, il cinabro per le labbra, e l’ombreggiatura a polvere di carbone intorno agli occhi per farne risaltare il bagliore.

Con l’avvento della corrente elettrica, il trucco teatrale si è alleggerito, ma non è mutato nella sostanza. La biacca è diventata il cerone, sul quale intervenire con i ritocchi: l’ombreggiatura per scavare le guance, il rosso per rendere più attraenti le gote femminile, il rossetto per le labbra e il kajal per il contorno occhi.

Anche nel cinema si sono avute varie fasi di trucco, per esempio nel passaggio dal bianco e nero al colore; al tempo del cinema muto, con pellicole ‘dure’, sul volto veniva spalmato un cerone verde perché risultasse bianco alla stampa, una pappa che facilmente si scioglieva al caldo infuocato delle lampade a incandescenza. I truccatori dovevano ritornare all’opera dopo ogni ciak. Ma con l’avvento del colore la Max Factor inventò il Pancake, un fondotinta a base cerosa che veniva applicato con una spugnetta bagnata nell’acqua. Era iniziata la stagione indimenticabile del Technicolor hollywoodiano. In seguito, con l’avvento delle pellicole sensibili e ultrasensibili, l’intero apparato del maquillage ha subito una profonda trasformazione. Il trucco si è adeguato all’ordinario make- up per donare compattezza e levigatezza alla pelle, soprattutto femminile, con la dovuta attenzione che l’incarnato sia luminoso ma non lucido, riflettente. La perizia del truccatore consiste nel restituire al volto le giuste gradazioni di colore con cui segnare le linee e attutire o eliminarne difetti e impurità; oltre a accentuare il risalto alle labbra e infondere profondità allo sguardo con rimmel e mascara. Un intervento di cosmesi che dal viso giunge a comprendere il decolleté, e quando serve, indispensabilmente per le scene di nudo, le altre parti del corpo che verranno inquadrate in primo piano.

Oggi con l’introduzione della ripresa digitale che permette di illuminare la scena persino con un lux, cioè con un cerino, o una candela, il maquillage è analogo a quello di ogni giorno. Ma la perizia del truccatore è messa diversamente alla prova per tutti gli altri interventi che potremmo assimilare agli effetti speciali. Pensiamo alle cicatrici sul volto (Scarface, faccia sfregiata) o sul corpo; ai tagli da coltello o altri oggetti affilati; la slabbratura di una ferita; il foro di un proiettile; il colare del sangue. Ma ancor peggio, un occhio maciullato, un corpo dilaniato da un’esplosione, un naso strappato, una guancia ustionata o completamente scarnificata. E’ pleonastico avventurarsi nei particolari, ciò che c’era da vedere l’avete già visto in mille film. E gran parte di quell’orrore è frutto del lavoro dei truccatori. Un volto demoniaco con gli occhi bianchi è dovuto a speciali protesi, e le lenti a contatto cambiano il colore dell’iride, o rianimano uno sguardo ‘da pesce’, cioè spento dalla miopia.

 

Questa sommaria esposizione serve a chiarire come sia ben oliata la macchina del cinema, in cui ogni reparto, formato da professionisti di solida esperienza, concorre in egual misura alla creazione e alla buona riuscita del racconto cinematografico.

In particolare quando a capo della troupe ci sia un regista supremamente visuale, un vero talento pittorico come Federico Fellini. Il quale come è noto disegnava compulsivamente trasponendo sul foglio di carta ogni idea che gli passava per la testa, con quel suo tratto distintivo che può apparire caricaturale ma è tutt’altro che caricatura, quanto piuttosto ritratto interiore, amplificato. Fellini aveva l’abitudine di disegnare tutti i personaggi delle sue storie, fin nei minimi particolari; non solo per quanto riguardava la figura, cioè la struttura fisica, la postura, l’atteggiamento, l’abbigliamento, ma in special modo le facce, esattamente come le aveva concepite nel ricordo o nella fantasia. I suoi bozzetti servivano da modello allo scenografo, al costumista, al direttore della fotografia e non ultimi agli addetti del reparto trucco, ai quali veniva assegnato il compito di riprodurre fedelmente il carattere che era stato esemplificato sul foglio.

Entriamo così in un nuovo e più sofisticato ambito di intervento di make-up, il trucco a sfondo ‘psicologico’, realizzato per restituire al primo sguardo il carattere e lo spirito del personaggio. Un esercizio in cui Fellini è stato un maestro e di cui in più di un’occasione ha illustrato le esigenze e il metodo.

Pensate per esempio al trucco con cui Giulietta Masina viene trasformata nella figura di Gelsomina la protagonista di La Strada. O Mastroianni, scelto per interpretare Marcello ne  La Dolce Vita; al quale Fellini, per togliere quell’aria da bravo ragazzo ciociaro e renderlo più inquietante, vizioso, segnato dalla vita notturna, fa aggiungere due vistosi calamari sotto gli occhi e applicare lunghe ciglia flabellanti e seducenti. La faccia del protagonista, già perfettamente ritratta nei disegni, viene sapientemente risolta a perfezione da Otello Fava, uno dei massimi truccatori del nostro cinema. Su Mastroianni, del resto, Federico si era rispecchiato a ogni nuova occasione; basta ricordare Guido di  8 ½,  o Snàporaz di La Città delle Donne; e infine Pippo Botticella di Ginger e Fred, che il regista vuole rendere più simile a se stesso anche nella rarefazione dei capelli. Ma non accetta la calottina di routine da sistemare sul capo, chiede al parrucchiere di strappare con le pinzette i capelli a uno a uno dalla folta chioma dell’attore! Marcello, così docile nelle mani dell’amico, commentava ridacchiando: “Perché è invidioso…”

In “Diario segreto di Amarcord”, backstage del film, c’è una sequenza in cui il regista, seduto alla scrivania del suo ufficio, spiega all’attore Armando Brancia, prescelto per interpretare Aurelio, padre di Titta, come dovrà risultare la sua faccia; e gli mostra un disegno in cui lo ritrae con un bel bernoccolo sul cranio pelato, una natta, come la denomina scientificamente, che servirà a meglio caratterizzare il suo sembiante. Un compito demandato ogni mattina, per mesi, alle mani del truccatore Rino Carboni. In Amarcord ciascun carattere è minuziosamente predefinito nei disegni, compresi i compagni di scuola di Titta, o i professori del Liceo Gambalunga, meravigliosamente diversificati in una doviziosa galleria di tipi. Del resto già da studente Federico schizzava caricature dei suoi docenti, i quali invece di adontarsi sembra ne rimanessero ammirati e lusingati.

Le facce disegnate da Fellini per il Satyricon sono un’esplosione di inventiva quasi medianica. Il truccatore Rino Carboni, aveva attaccato allo specchio le polaroid dei provini scattate da Danilo Donati, il quale insieme al regista aveva inventato uno ad uno i connotati degli antichi romani. I ritratti ottenuti in sala trucco sono un’impressionante galleria di ectoplasmi, di materializzazioni metapsichiche. Altrettanto è accaduto per E la nave va, ma questa volta a ‘disegnare’ le facce era stato Pierino Tosi, altro ineffabile pittore cinematografico. Trucco e acconciature dei volti ‘liberty’ di tutti i partecipanti alla luttuosa crociera sull’Egeo, erano usciti in ogni dettaglio dalle sue mani. E in precedenza ancora Tosi aveva immaginato, insieme a Federico, il viso di Toby Dammit, l’attore stravolto da psicotropi e dall’alcol, che muore decapitato sfidando satana in una atroce, iperbolica bravata. “Non scommettere la testa con il diavolo”, era il titolo del racconto di E.A. Poe, da cui Fellini aveva tratto il suo sulfureo episodio.

Per Casanova, a Donald Sutherland furono radicalmente alterati i lineamenti, perché il personaggio potesse apparire, senza equivoci, quella creatura mai nata, che Fellini scorgeva nel famoso amatore Veneziano: “Deve avere la faccia come un piede, – imperversava il regista – un aspetto che lo renda simile a un feto prigioniero del grembo materno. Gli occhi celestini e acquosi dovranno sembrare ancora annegati nel liquido amniotico.”

L’attore canadese era stato stempiato molto oltre l’occipite, fino a metà testa, e la sua seduta di trucco durava ogni mattina dalle tre alle quattro ore. Le cifre ci rivelano che alla fine del film Donald Sutherland ha indossato 40 costumi diversi, 10 parrucche, 300 nasi e 300 menti diversi ed è stato sottoposto, per rendere credibile il processo di invecchiamento, a 126 trucchi differenti.

Sarà ancora grazie al trucco, su disegno inconfondibile del regista, che Roberto Benigni ne La voce della luna diventerà per la prima volta Pinocchio; un presagio ben calcolato.

 

Nel film Intervista infine Federico interviene di persona in sala trucco per spiegare a Sergio Rubini, chiamato a impersonare il regista da giovane, perché gli viene applicato un brufolo sul naso:

“Dunque tu sei il giovane giornalista che viene inviato dal suo direttore a intervistare la diva a Cinecittà. Allora Sergio, questo giornalista è molto emozionato perché è la prima volta che va a Cinecittà e poi la diva dell’intervista è una donna che ha sempre adorato…

(Si rivolge al truccatore De Rossi)

Ah, Massimo, mi dimenticavo, hai preparato quei foruncolini? Volevo aggiungere qui un piccolo pedicello, sai quelli con la punta rossa…

(le truccatrici protestano e Fellini spiega divertito)

Adesso non esagerate, non glielo metto mica per un mio capriccio o per fare un dispetto a Sergio! (Rivolgendosi di nuovo all’attore)

Perché devi pensare che uno come te che va a intervistare una bella donna con un foruncolo sul naso, si sentirà imbarazzato, mortificato… Appunto come desidero sia l’atteggiamento del personaggio. E’ un aiuto per te attore, capito?”

In Intervista, “un film in diretta”, Fellini ci invita apertamente a entrare nel suo laboratorio, e ci racconta gli stratagemmi del mestiere, spiegando quali siano le ragioni delle sue scelte. Anche per chiarire che nel cinema nulla avviene a caso, qualsiasi dettaglio ha un preciso fine espressivo. Grazie alle parole del regista abbiamo compiuto un salto oltre lo schermo, nel crogiuolo creativo in questo caso rappresentato dall’allegro, effervescente e confusionario plotoncino addetto al trucco. Il reparto apparentemente più frivolo del film, del quale va ricordata almeno una funzione delicatissima, anzi strategica per l’armonia della lavorazione. E’ il truccatore o la truccatrice, che accoglie l’attore all’alba di ogni giorno, ne assorbe la tensione, l’ansia, il malumore alcolico, i mugugni; ne ascolta le lamentele, le confidenze amorose, gli incubi della notte. L’attore si mette nelle mani del truccatore quasi fosse il suo analista, si sdraia nella poltrona, si rilassa, qualche volta schiaccia persino un pisolino se ha dormito poco, fuma una sigaretta, trova sempre un caffè caldo a confortarlo, una parola buona, un complimento per la sua vanità, una barzelletta per il buon umore, un pettegolezzo per risvegliare l’attenzione. Il truccatore è il primo riservato e leale complice del regista, che mai farebbe a meno dei suoi buoni uffici. Quando il regista verso le otto entra in sala trucco per i saluti, ecco il divo già pronto, coccolato, vezzeggiato, amorevole, allegro e impaziente di girare la scena che lo attende.  Dicevano i vecchi truccatori: “L’attore è così, come un pupo in fasce. E noi siamo la sua culla”.


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