Adèle Haenel nella Liegi di Simenon. ‘La fille inconnue’ di Jean-Pierre e Luc Dardenne

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Dare nome ai morti, dare nome ai morti. Questo pensiero non lascia mai la dottoressa Jenny Davin da quando ha scelto di non aprire la porta del presidio medico di base a una ragazza sconosciuta, un’ora dopo la chiusura. La stessa ragazza che la mattina seguente viene trovata morta dalla polizia con la testa spaccata su una pietra del porto. A Jenny è precluso il sonno, fuma alla finestra guardando le luci nella notte, segue le tracce della giovane immigrata dentro il piovigginare spento di un quartiere periferico di Liegi simile ai tanti descritti da Simenon; e nei cantieri abbandonati, nelle buche, nella desolazione rugginosa delle parti meccaniche abbandonate all’entropia, nei prati marciti, in ogni personaggio infimo o indifeso de La fille inconnue, capolavoro diretto dai fratelli Dardenne nel 2016, troviamo il repertorio umano e la configurazione dei luoghi elaborati lungo l’arco di 40 anni dallo scrittore belga.

Persino Jenny, con il suo tormentoso senso di colpa e il giaccone di lana a quadri da cui non si separa mai, è affine agli indagatori della psiche simenoniani. Coloro che sanno cogliere negli interlocutori le piccole increspature rivelatrici dell’ansia o del misfatto, e che umanamente le comprendono.

Se davvero ai morti non importasse più niente del loro nome, non li avremmo sempre in testa, non li sentiremmo pulsare dentro il sangue. Così, mentre Jenny cura non i ‘pazienti’ ma le persone come facevano i medici condotti di un tempo – arrivando alla diagnosi attraverso visite attente, decifrando con lo stetoscopio le alterazioni del respiro del mondo, adeguando il passo e i tempi alla lentezza degli anziani, alla loro paura di morire da soli, accettando con cordialità qualche cialda e un caffè, medicando necrosi diabetiche e telefonando agli assistenti sociali troppo distratti -, continua in parallelo la sua ricerca della verità, che si trasforma in una discesa nell’infelicità di tutti coloro che in qualche modo si sono imbattuti nella ragazza senza nome. Adèle Haenel, alla sua prima prova matura, scarnifica l’interpretazione facendo vivere la condizione di acuta sofferenza di Jenny solo dentro l’addoloramento febbrile o rabbioso dello sguardo, nei gesti di conforto, accudimento o difesa, senza una sbavatura, senza eccessi.

Davin incrocia l’ostilità della polizia, la violenza dei trafficanti di droga e degli sfruttatori, il silenzio angosciato di adolescenti che passano il tempo spiando le prostitute nei camper, la vulnerabilità emotiva di uomini anziani e malati che si concedono le ultime, avvilenti consolazioni sessuali per fuggire il pensiero della morte.

E’ Vincent infine, uno dei suoi pazienti, a sputarle in faccia la verità. L’inseguimento della ragazza, la richiesta di qualcosa di più, la fuga, la caduta accidentale, la morte per dissanguamento, perché chi avverte il rischio di perdere tutto – famiglia onorabilità lavoro – non chiama mai i soccorsi, scappa. Il corpo che si sta spegnendo non appartiene davvero a un essere umano, è una cosa, un oggetto che per disgrazia si è rotto.

Jenny trova il nome, non Serena come pensava la polizia bensì Félicie, 18 anni, originaria del Gabon.


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