Coronavirus. Raccolte fondi e flashmob, Borgonovi: “Segno di nuova sensibilità”

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Continuano, con successo, le campagne lanciate sul web a favore di ospedali, Asl e sistemi sanitari regionali, ma l’emergenza sanitaria avrà un impatto sul Servizio sanitario nazionale. L’analisi del presidente del Cergas della Bocconi, Elio Borgonovi: “Bene raccolte fondi, ma non sono la soluzione. Stavolta non è una crisi passeggera”
di Giovanni Augello
ROMA – L’impennata di contagi da coronavirus in tutta Italia ha scatenato una vera e propria corsa alla solidarietà nei confronti di ospedali pubblici e privati, aziende sanitarie locali e interi sistemi sanitari regionali. Il fiorire di raccolte fondi a favore della sanità nasce sulla scia della campagna lanciata dalla coppia Ferragni e Fedez che in una sola settimana ha permesso di raccogliere oltre 4 milioni di euro (superando anche l’obiettivo iniziale di 4 milioni) per sostenere l’attivazione di una nuova terapia intensiva all’Ospedale San Raffaele di Milano. Oggi sono tantissime le iniziative realizzate su tutto il territorio nazionale per sostenere un sistema sanitario sotto pressione. Un aiuto concreto, ma anche “un segno utile di una nuova sensibilità” verso l’importanza del nostro servizio sanitario nazionale, ma che sul lungo periodo “non può essere la soluzione”. È quanto sostiene Elio Borgonovi, professore di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche all’Università Bocconi di Milano e presidente del Cergas (Centro di ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale), che su Redattore Sociale racconta le sfide per il nostro sistema sanitario imposte dalla situazione attuale.
A giocare un ruolo fondamentale sulla salute dello stesso servizio sanitario nazionale, negli ultimi anni, infatti, è stato il disinteresse della politica accompagnato in parte anche da quello dell’opinione pubblica. “Il sistema sanitario, da almeno 10 anni, non è al top dell’agenda politica – spiega Borgonovi -. È sempre stato utilizzato un po’ come ambito in cui contenere la spesa. Quando c’erano da trovare due o tre miliardi per far quadrare i conti nel 2011-2012 si è inciso su quello e anche l’evasione è indubbiamente un fattore che penalizza soprattutto i servizi”. Oggi, quindi, paghiamo il conto dei tagli e a giudicare dalla corsa alla creazione di posti di terapia intensiva è piuttosto salato. “Quello che lascia un po’ più perplessi è il fatto che non si è capito per tempo che agendo sempre sul servizio sanitario lo si portava vicino al punto di rottura – continua Borgonovi -. Anche in altri paesi europei, dopo la crisi del 2007-2008, c’è stato il blocco del finanziamento dei sistemi sanitari o assicurativi. In Germania e in Francia, però, dal 2012-2013 in poi la spesa in sanità è ripresa dell’ordine del 2-3%, mentre da noi a malapena è ripresa nel 2015-2016”. Per Borgonovi ci sono indubbiamente delle “responsabilità politiche”, ma anche l’opinione pubblica ha di che rimproverarsi. “La salute è un bene che si apprezza quando si perde – chiosa Borgonovi -, mentre gli altri beni si apprezzano quando li hai. Mi sono sentito dire spesso ‘voi in Italia non vi rendete conto della fortuna che avete con un servizio sanitario pubblico che anche nelle regioni più in difficoltà dà delle garanzie a tutti’ e noi spesso non ce ne rendiamo conto”.
L’emergenza coronavirus, però, lascerà il segno. Ne è convinto il presidente del Cergas. “Stavolta non è una crisi passeggera – spiega Borgonovi -. Il coronavirus ha dato quella spallata all’attuale sistema economico e sociale in parte già data con la crisi del 2007. Stavolta è più pesante perché mette in discussione anche la distribuzione dei processi produttivi. Se continuiamo a decentrare va a finire che succede un guaio e poi i paesi si trovano bloccati come succede adesso”. Una situazione, quella attuale, che avrà un impatto anche sul sistema di tutela della salute. “Costringerà a rivedere l’impianto del servizio sanitario nazionale – spiega Borgonovi -. Il primo punto è quello di tornare a rafforzare la prevenzione, poi occorrerà rafforzare i sistemi d’emergenza come quella che stiamo vivendo. Non si posso avere reparti di malattie infettive o di terapia intensiva funzionanti all’80% della capacità di assistenza perché poi, quando arriva il picco, succede quello che stiamo vedendo adesso. Va mantenuta una certa capacità in eccesso, perché mentre in altri campi si può programmare, in queste divisioni non si può rinviare. Non si potranno fare discorsi di minimizzazione e di ottimizzazione dei costi. Occorre tenere un 40% di letti vuoti perché altrimenti si arriva in momenti come questi in cui si va al 130%”.
Sulla terapia intensiva, infatti, i numeri italiani sono ben al di sotto di quelli di altri paesi europei, ma per Borgonovi c’è una ragione e non è del tutto errata. Tuttavia, l’aver ridotto i numeri della terapia intensiva ha portato alla situazione d’emergenza che tutti conosciamo. “Un aspetto positivo dell’Italia, che a volte non viene sottolineato, è che più di altri paesi, e anche più della Germania, si è ragionato in termini di percorsi dei pazienti, per cui dopo la terapia intensiva c’è la subintensiva, poi le dimissioni protette – spiega Borgonovi -. In altri paesi, invece, si punta maggiormente sulla cura per acuti. Poi però c’è un punto di debolezza oggettivo e cioè che si è portato il sistema all’osso. Un aspetto che, in questa situazione, si è rivelato un punto di debolezza. Sicuramente, in Italia, i posti di terapia intensiva aumenteranno stabilmente perché in futuro lo sviluppo delle conoscenze consentirà di affrontare situazioni sempre più gravi e severe che richiederanno terapie intensive”.
L’impennata di contagi, però, ha portato alla luce anche la necessità di personale medico sufficiente per far fronte anche a situazioni come questa. “C’è stato un blocco del turnover soprattutto nelle regioni in piano di rientro che dal 2010 hanno perso circa il 15 -16% del personale – spiega Borgonovi -, ma anche nelle regioni non sottoposte a piano di rientro, come ad esempio Lombardia, Veneto e Toscana, il vincolo è stato rilevante perché non c’erano le risorse e poi c’era il blocco della pubblica amministrazione”. Blocchi che rappresentano una delle ragioni per cui ogni anno l’Italia perde nuovi medici che decidono di andare a lavorare all’estero. Un trend che secondo Borgonovi sarà difficile invertire, almeno nel breve termine. “C’è un problema di differenziale retributivo – spiega il presidente del Cergas -. Negli ultimi 25 anni, le retribuzioni italiane hanno perso rispetto ai tedeschi, ai francesi e agli stessi inglesi. Dipende dalla situazione economica generale, lo sappiamo, ma proprio il differenziale retributivo sarà difficile da superare nel breve periodo”. Qualcosa, però, si può fare almeno per attenuare questo flusso in uscita. Per Borgonovi occorre “creare condizioni organizzative più favorevoli perché a volte i medici vanno via non solo e non tanto per la retribuzione, ma anche perché si accorgono che mancano le attrezzature e non riesco a fare i medici. Una componente vocazionale nella professione di medico c’è e credo che i valori delle persone non siano una cosa astratta. Su questo tema, penso si possa fare abbastanza”. Per Borgonovi, infine, occorre ridare il giusto riconoscimento alle professioni. “Siamo un paese dove a volte non riconosciamo le persone che hanno dei ruoli fondamentali – spiega -: come i maestri che formano i bambini, i giornalisti che salvaguardano certi diritti tramite l’informazione. Spesso disconosciamo questi ruoli. Non possiamo organizzare flashmob per medici e infermieri dai balconi e poi, nel quotidiano, snobbarli quando dicono che hanno bisogno di attrezzature o farmaci”.
Da redattoresociale

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