Nella luce profonda del desiderio. ‘Scene da Faust’, regia di Federico Tiezzi

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Agli esordi della malattia che lo condurrà alla morte Robert Schumann, dopo aver letto il capolavoro di Johann Wolfgang von Goethe, inizia a comporre un oratorio profano, il Szenenaus Goethes Faust. La complessità della trasposizione musicale di una poesia così alta lo impegnò lungamente e solo nove anni dopo riuscì a concludere, tra ripensamenti e revisioni, il lavoro iniziato nel 1843. Lo stesso titolo è ripreso da Federico Tiezzi nella sua messinscena originale e spesso imprevedibile, forse anche per merito delle eleganti coreografie del ballerino francese Thierry Thieû Niang, della scenografia magistrale di Gregorio Zurla e delle luci di Gianni Pollini − mai, come in questa rappresentazione, determinati per la sua riuscita − che muta la notte di Schumann nell’eterno giorno di un paradiso irraggiungibile.

Non c’è una trama vera nella riduzione che Tiezzi dirige, sulla scia di un desiderio nato trent’anni fa dopo il Faust di Strehler al Teatro Studio. Nulla accomuna le due rappresentazioni se non l’idea di usare, insieme ad attori affermati, un gruppo di giovani usciti dalla scuole di teatro. Il tema, la crisi del senso di oggettività che i titoli precedentemente affrontati e sempre sceneggiati sulla riscrittura di capolavori della letteratura come Signorina Else da Arthur Schnitzler e l’Antigone di Sofocle, è congeniale al regista.

Lo spettacolo inizia con gli attori, vestiti di bianco, che meditano seduti in cerchio mentre innalzano un coro. Per ricordarci di cosa si stia per parlare: dell’inconscio e dei suoi labirintici percorsi. Su di un fondale retroilluminato, su di un palco invaso da una luce abbacinante che, lattiginosa, opalescente, pervade i corpi quasi a trapassarli, luce che giunge nella platea come a rappresentare quella divina che in fondo non può nulla, se Dio è uno specchio rotto che nulla riflette, nulla ridà, bonario e perdente, contro la dialettica umana, raffinata, crudele di un Mefistofele, interpretato dal demoniaco Sandro Lombardi.

Se pensate d’incontrare l’oscurità in questo Faust la troverete solo nelle pieghe delle riflessioni umane, nella violenza delle morti che l’abbandono al diavolo del dottor Faust, produrrà, in un incontenibile processo di disgregazione della volontà e se pensate di sentire nominare la parola inferno siete sulla strada sbagliata. Mefistofele è il doppio del protagonista e le due figure, che dialogano incessantemente, restano inscindibili, le uniche vestite di scuro. Quando la vetta della capacità intellettuale fallisce nel tentativo di immortalità che, sciolta dal corpo, in fondo, perde qualunque oggettività, resta solo il mondo sensibile, il sesso, il desiderio che trafigge la volontà a dare un senso all’esistenza. La confusione passa attraverso la trasformazione messa in atto dalla ‘strega scimmia’ e dalle sue assistenti che mutano in corpo il pensiero di Faust − un cupo e autodistruttivo Marco Foschi − deluso dall’inconsistenza dei propri studi; un sapere che si trasforma nelle urla di esseri antropomorfi in coloro che lo hanno eletto a maestro per poi dimenticarlo subito: perché il tempo fa strame della carne e di ogni opera dell’uomo. Il male è un germe che si trasmette velocemente, inquina i corpi e li rende folli, se Mefistofele in persona interviene, ogni desiderio è raggiungibile, forse anche quello di possedere l’incontaminata e pura margheritina, la splendida Gretelchen interpretata da Leda Kreider, occhi azzurri, come l’abito che dapprima indossa in scena e i capelli biondi di un angelo immediatamente perduto.

Così nell’immortalità che rende immune Faust, passa la morte del fratello della concupita, ucciso in un duello che non poteva avere altro epilogo, e si trasmette il dilagante male che trascina Margherita sul patibolo dopo l’omicidio della sorella e della madre. Nel suo folle e delirante monologo finale, un coinvolgente flusso di coscienza dove si mescolano volontà, rassegnazione ed esaltazione – e qui non possiamo fare a meno di citare quello di Else, nella omonima novella di Schnitzler già rappresentato dal regista −, nell’ultima delle scene in cui è scandita la pièce, la giovane, attendendo la morte, cercando la morte con dedizione e forse in essa giustificando il proprio amore, diviene la vittima di un potere superiore; trapassata dalla smania comunque irrisolta di Faust che forse la genera in sogno, per distruggerla. «Lacrimosa diesilla, / Qua resurget ex favilla / Judicandus homo reus» sono le parole della Lagrimosa di Zbigniew Antoni Preisner, parte dell’evocativa colonna sonora dove si mescolano Mahler e Badalamenti. Gretelchen giace infine, dissipata e avvolta come un fantasma nel velo bianco, quello stesso che l’avrebbe dovuta vestire nel matrimonio con Faust a cui la malìa l’aveva condotta, sulla scena dove il bianco ora è diventato pervasivo, la circondano alberi che come cipressi si stagliano sul paesaggio assente e ci rammentano la caducità dell’uomo e la verità del sepolcro: il diavolo può darci l’immortalità, nel sogno però si deve ancora morire.

 

Piccolo Teatro Grassi
dal 18 febbraio all’1 marzo 2020
Scene da Faust
di Johann Wolfgang Goethe
versione italiana Fabrizio Sinisi
regia e drammaturgia Federico Tiezzi
scene e costumi Gregorio Zurla
luci Gianni Pollini
regista assistente Giovanni Scandella
coreografo Thierry Thieû Niang
canto Francesca Della Monica
con Sandro Lombardi, Marco Foschi e Leda Kreider
e con Dario Battaglia, Alessandro Burzotta, Nicasio Catanese, Valentina Elia, Fonte Fantasia, Francesca Gabucci, Ivan Graziano, Luca Tanganelli
produzione Teatro Metastasio di Prato, Compagnia Lombardi-Tiezzi
in collaborazione con Fondazione Sistema Toscana/Manifatture Digitali Cinema Prato
e Teatro Laboratorio della Toscana/Associazione Teatrale Pistoiese


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