Misericordia è donna. La pietas popolare e respingente di Emma Dante – prima nazionale

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Milano, Piccolo Teatro Grassi – Si comincia con il palcoscenico al buio invaso da un ticchettìo insistente e ritmico, sempre più incalzante. Si direbbe il tempo che corre chissà dove e incespica per la fretta e invece sono mani che sferruzzano. L’aria è già tesa e la scena, per disadorna e poco evocativa che sia, fa trattenere il fiato. Quattro sedie e una montagna di “robba” ammucchiata in penombra. Ma poco più che robaccia sembrano anche i personaggi ritti sulle proprie natiche appoggiate alle seggioline: tre sono donne, uno è solo vestito come loro, ma è secco, smunto, teso e ipercinetico. Al ritmo dello sferruzzare, compie gesti innaturali e scoordinati – il capo cede in avanti con eccessivo abbandono e gli arti si irrigidiscono disegnando meccanicamente traiettorie ripetitive: sembra spinto dalla ricerca intermittente di contatti fisici, che non si compiono e non partono da un’intenzionalità. Si capisce subito che non funziona bene, lui. Le donne intorno, sciatte ma scattanti, sono veloci di dita e di lingua: le due a sinistra degli spettatori spettegolano fitto fitto tra loro – specialmente una, in un dialetto sussurrato che ritmicamente si alza di tono, di concerto con la rabbia e la malevolenza crescente rivolta alla terza donna. Si percepisce subito l’intimità di questa relazione, benché conflittuale, come quando si capisce che c’è troppa gente in uno spazio limitato dall’odore chiuso che la stanza assume. Qui è il palcoscenico, riempito da occhiatacce e da troppe parole e non detti, ad essere troppo stretto per coloro che lo abitano. Da ciò che riusciamo a decifrare, la terza donna avrebbe frugato nella spazzatura per recuperare un vestito da dare ad Arturo, il malfunzionante. Insofferenza reciproca ma senza vera cattiveria: sembra più che altro esasperazione, fastidio per la convivenza forzata e per la durezza dell’esistenza. Le tre donne fanno la maglia di giorno e si concedono per pochi soldi la notte. Tirano avanti, vivono insieme e litigano per il cibo e per la mancanza di senzo delle loro esistenze. Arturo, alieno in questo universo, è anche l’unico vero diversivo per loro, l’unico legame affettivo per tutte: un ragazzetto che non parla e che si muove sempre, il prolungamento fragile della breve vita di Lucia, la loro quarta compagna di sventure, che lo ha dato alla luce per poi morire poco dopo, affidandolo alle sue coinquiline. Lucia, picchiata dal padre di Arturo che veniva a trovarla regolarmente una volta alla settimana e faceva di lei ciò che più gli aggradava. Le altre tre potevano odiarlo ma non impedire quella violenza, con cui egli si accaniva anche sulla pancia gravida. E le tre superstiti hanno accolto il frutto di quel non-amore tra loro, si sono prese cura di lui, lo hanno riempito di giochini rimediati e di musica della radio, come quella che amava tanto ascoltare la sua mamma Lucia. Anche ad Arturo piace la musica e aspetta tutti i giorni la banda, mimando la grancassa. Ma Arturo cresce e non è più compatibile con la vita delle sue tre madri adottive. Va affidato alle istituzioni. Gli va fatta la valigia. Gli vanno date le cose importanti per cavarsela nel mondo da solo. Eppure, a parte pochi soldi e un ciondolo della mamma, le tre donne non hanno nulla da dare o da dire, se non il fatto di averlo accolto nelle proprie esistenze, come triade di madri non biologiche ma capaci di accudimento.

Vi si potrebbe intravvedere la capacità di essere madri anche senza aver generato, visto che la stessa regista è madre adottiva, ma l’energia che esce dalla danza sfrenata di Arturo sembra aprire a qualcosa di ancor più universale: l’accoglienza prescinde dalle condizioni economiche di chi apre le braccia e condivide il poco che ha, l’accoglienza è generativa quanto la maternità, l’accoglienza è l’antidoto alla violenza, è la tenerezza che irrompe e feconda anche la miseria, che resta ineluttabile, soffocante e invincibile.

“Femmina penso se penso l’umano” è un verso della Ballata delle donne di Sanguineti che Emma Dante ha riportato come citazione iniziale nelle note di regia. Anche quando essere donna significa essere umiliata e svilita, la fìmmina salva e si fa comunità? I corpi nudi, che sono così necessari alla poetica della regista siciliana per simboleggiare l’intimità spoglia dai pregiudizi, dai ruoli sociali e forse anche dalle nostre stesse maschere autoimposte, sono sempre sgraziati e poco performanti, ma in fondo ci inteneriscono per il loro essere tutt’altro rispetto ai corpi “commerciali”, plasmati dal voler essere come ci vogliono “gli altri”. Arturo sotto la veste femminile indossa un pannolino, che da solo significa la sua tenera età mentale e la sua mancanza di autonomia. Le tre donne sotto il vestito hanno una sensualità diversa, meno standard; sono grossolanamente imperfette, popolari, segnate dalla vita e da quello che di sgradevole e doloroso è capitato loro, nonostante non lo desiderassero. Vulnerabili eppure impavide, queste donne esibiscono i loro corpi come tracce fisiche e concretissime della loro povertà di mezzi. E l’indecenza non è tanto la nudità, quanto l’incapacità di accettare il diverso in mezzo a noi.

Una nota di merito per la capacità di contorsione e la resistenza fisica di Simone Zambelli-Arturo, un danzatore e attore che passa dalle rigidità di burattino in apertura dello spettacolo alle corse sfrenate e scioltissime verso la fine dell’opera: la sua fisicità scabra e il suo volto triangolare e asimmetrico catalizzano subito l’attenzione. Un’altra menzione necessaria va all’energia e allo scioglilingua del pettegolezzo in dialetto di Leonarda Saffi, mitraglia di parole e interprete straordinariamente espressiva con ogni movimento del suo corpo florido.

Eppure, in tutto questo sentire istintivo, effettivamente a lungo ignorato o addirittura estromesso in Occidente, in questa sovraesposizione della fisicità, anche difettosa, si avverte, con un certo smarrimento, la mancanza di un ruolo, quale che sia, per la ragione e per la cultura, che pure sono strumenti cui il teatro di Emma Dante attinge a piene mani. Sembra, a momenti, che l’autrice ne respinga in modo sarcastico alcuni elementi percepiti come illusori e pericolosi per poter arrivare al nucleo ultimo, ferino e dolente, della natura umana.

Misericordia scritto e diretto da Emma Dante

con Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco, Leonarda Saffi, Simone Zambelli

foto di Masiar Pasquali

Al Piccolo Teatro Grassi dal 14 gennaio al 16 febbraio 2020


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