Una meravigliosa imperfezione: “My place” al Centro Zo di Catania

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Toilette, imbellettamenti, tentativi quotidiani di restauro. Ma c’è anche la stanza da sistemare e le coperte da piegare – intanto sullo schermo le immagini di terrazze qualsiasi di palazzi qualsiasi di case qualsiasi scorrono velocissime in un loop ossessivo – in quella che sembra una preparazione allo spettacolo, in cui tre donne in mutandine e reggiseno – Francesca Albanese, Silvia Baldini e Laura Valli – compiono con enfasi scazzata e autoironica i gesti normali di un giorno qualunque, nevrosi comprese. Donne reali e non maschere perché quelle donne sono soprattutto corpi e sono al contempo le case che quei corpi abitano.

I micro frammenti, di cui si compone l’eclettico “My place. Il corpo e la casa” – un progetto di Qui e Ora Residenza Teatrale con la regia Silvia Gribaudi che il Centro Zo ha accolto nella sua programmazione – sono le polveri sottili della vita che respiriamo in quel macrocosmo che è il nostro corpo e il nostro spazio: solo che oggi – nella surmodernità direbbe Augé – ci si sente alienati all’interno di quello che abitiamo, casa o corpo: il diktat martellante di un immaginario estetizzante li esige giovani, belli, performanti, sodi, desiderabili: la sequenza del duro lavoro in palestra è la situazione esilarante ed emblematica ad un tempo di come ci si possa sentire espropriati dal proprio corpo in funzione di una società che lo norma e lo disciplina per assecondarlo ai suoi modelli. “My place” è invece uno studio sui corpi normali, quotidiani, felicemente imperfetti – e sulle loro improvvisate declinazioni. Quei corpi irridono il tempo, l’etica e quell’immaginario, prendendosi gioco di se stessi e di ogni criterio uniformante – “dissacrare ogni momento con bellezza” è il motto della Gribaudi – coinvolgendo anche quello degli altri: pescando, per esempio, a caso tra gli spettatori qualcuno con cui volteggiare in scena. Una scena abitata volutamente solo dai quei tre corpi: dalle ombre che proiettano, dalle piroette che si ostinano a reiterare, dalla tenerezza improvvisa e disarmante che esprimono e a cui anelano. Ogni singolo gesto di liberarsi di quel corpo – alienato, imposto, pensato da altri – serve a riappropiarsene, costruendo per tutta la performance l’idea di un corpo-casa attivo, reagente e al contempo di una casa-palcoscenico nella quale riprodurre – anticipare anzi – le illusioni del Teatro e della vita: renderle finalmente vere, libere, autonome. Da questo punto di vista “My place” è uno show dada-femminista e metacorporale – sono i corpi veri a narrare se stessi – e metatestuale – nel momento in cui irrompono le storie di tanti “sfrattati” dalle loro case, raccolte dalla regista – che individua ed esprime una comunanza di gesti capace di coinvolgere anche la platea: non più e non solo architettura della rappresentazione, ma casa comune. Lo “sfratto” (e i lacerti di video a cura della regista indagano anche questo aspetto della corporeità) si annulla: un esterno, un giardino, la vasca di una vecchia fontana diventano luoghi da ri-abitare. Uno spettacolo felicemente in bilico tra punk esilarante, anarchia e riflessione profonda in cui il corpo originariamente esposto al mondo, diventa riferimento e, finalmente, se stesso: corpo-casa: nido.


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