Mikis Mantakas: una morte con troppi misteri

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Quarantacinque anni da una morte con tante, troppe, oscurità. Quarantacinque anni da una morte paradigma dell’Italia quale “Repubblica dei Misteri”. Perché su Mikis Mantakas, studente greco di medicina ucciso a Roma il 28 febbraio 1975, ancora oggi dominano le nebbie. Nonostante tre gradi di giudizio. A riprova che la verità processuale non sempre è in armonia con la verità storica.

Per il decesso di quel simpatizzante del FUAN, il movimento universitario di destra, avvenuto in un freddo venerdì d’inverno degli infuocati “anni di piombo”, il 20 ottobre 1981 la Corte di Cassazione confermò la sentenza della Corte d’Appello di Roma: sedici anni di reclusione per omicidio nei confronti di due estremisti di sinistra allora contumaci e tuttora latitanti, Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono.

Ma proprio la loro libertà oltreconfine è la punta di un iceberg di contraddizioni, interrogativi e nebbie su una vicenda ancora assetata di verità. Perché la storia di Mantakas non quadra fin dall’inizio. Cioè da Roma, via Ottaviano, quartiere Prati, 800 metri da piazza S. Pietro. Dove quel 28 febbraio un corteo, non autorizzato, di militanti di sinistra tentò l’assalto alla sede del MSI. Era l’ennesimo atto di guerriglia urbana per il processo per il rogo di Primavalle, iniziato pochi giorni prima nel Tribunale del vicino piazzale Clodio (distante 1,5 km), che vedeva tre esponenti di “Potere Operaio”, formazione della sinistra extraparlamentare, imputati per l’incendio, nella notte del 16 aprile 1973, della casa di Mario Mattei, segretario della sezione MSI del quartiere, che causò la morte di due dei suoi sei figli.

Davanti al palazzo, presidiato da una settantina di missini, si scatenò l’inferno. Calci, pugni, sassaiole, bastoni, spranghe e molotov. Poi, a un certo punto, anche gli spari. Uno, verso le 13:30, colpì alla tempia Mantakas, che spirò poche ore dopo in ospedale. E da quel momento sulla sua fine calarono le tenebre.

 

INDAGINI SENZA RISCONTRI – Le cronache del tempo raccontarono che nell’androne di un palazzo della zona fu subito arrestato un giovane di sinistra: Fabrizio Panzieri. Gli inquirenti pensarono fossero suoi la pistola e l’impermeabile bianco rinvenuti al primo piano dello stabile. Ma, a parte che il soprabito era di due taglie più piccolo, l’arma non era quella che sparò a Mantakas. Perché aveva proiettili calibro 7,65 mentre quello fatale fu un calibro 38. Negativo anche l’esito del guanto di paraffina, ma Panzieri in primo grado (4 marzo 1977) fu comunque condannato: nove anni per concorso morale in omicidio. Ma allora chi premé il grilletto? Circolò il nome di un altro estremista rosso, Alvaro Lojacono, vent’anni, figlio di un noto esponente del PCI. Assolto contumace per insufficienza di prove in Assise, in Appello (31 maggio 1980) si prese sedici anni per omicidio. Sennonché i tre missini che lo accusarono in foto, in dibattimento non lo riconobbero dal vivo e caddero in contraddizione anche su altri dettagli come l’abbigliamento del killer. Ma allora perché fu condannato?

 

MA LE PERIZIE? – La stampa riportò che per la perizia balistica della difesa lo sparo arrivò dall’alto verso il basso e, secondo il medico legale, almeno da trenta metri perché non scoppiarono le ossa della testa. Mantakas era alto circa 190 cm, quindi è molto probabile che il proiettile partì dal piano di qualche edificio della via. In base alle deposizioni in aula, fra le quali anche quella dell’allora maggiore dei carabinieri Antonio Varisco, almeno fino alle 13 Lojacono fu trattenuto dentro il Tribunale per una baruffa con un missino. Era disarmato. Per cui come avrebbe fatto a procurarsi la pistola, arrivare a via Ottaviano, posizionarsi in alto e sparare a Mantakas entro le 13:30?

 

ROSSO LATITANZA – Rimesso in libertà nell’aprile 1977 per problemi di salute, Panzieri a fine luglio 1979 fece perdere le sue tracce mentre il suo nome saltava fuori in un’indagine sulle “UCC” (Unità Combattenti Comuniste). Chi lo aiutò a fuggire? È possibile non sapere dove sia oggi?

Ben più articolata la storia di Lojacono. Primula rossa da due giorni dopo il delitto, riapparve nelle udienze dell’Appello salvo darsi nuovamente alla macchia prima della Cassazione. Chi gli permise di transitare in Algeria, Brasile e Svizzera? Dove risiede grazie all’acquisizione del cognome della madre, cittadina elvetica, tanto che è corretto chiamarlo Alvaro Baragiola. Tra i due dibattimenti dell’omicidio Mantakas entrò nelle Brigate Rosse, uccidendo il giudice Girolamo Tartaglione e, soprattutto, partecipando al mistero dei misteri d’Italia: il sequestro di Aldo Moro. La mattina del 16 marzo 1978 c’era anche lui a via Fani. Come fece ad agire da irreperibile nella stessa città dov’era ricercato? Nel 2019, a “Le Iene” che gli hanno chiesto se avesse ucciso Mantakas, ha risposto: “Non lo so”. E sui suoi debiti con la giustizia: “Se l’Italia fa una domanda per tutto il cumulo delle pene che ho, domani io l’accetto”. Ma allora perché il nostro Paese non agisce?

 

NEBBIE NERE – Anche da destra piovvero misteri sul delitto. “Paese Sera” del 10 marzo 1975 riportò come per “Il Secolo”, quotidiano del MSI, a sparare sarebbe stato un uomo sceso da una moto Honda guidata da un complice. Indiscrezione d’argilla o pista trascurata?

Sempre i giornali dell’epoca scrissero dell’arresto di un estremista, collezionista di cimeli nazisti, che raccontò di essersi infiltrato nel corteo e di aver addirittura partecipato all’omicidio. Emerse l’adombramento di un complotto per il quale la morte di Mantakas sarebbe servita a rilanciare la strategia della tensione in Italia e i fascisti in Grecia dopo la deposizione del regime dei “colonnelli”. L’uomo poi ritrattò. Ma a destra a chi avrebbe giovato quella pista? Era morto un loro esponente in uno scontro con i nemici di sempre, dunque perché quelle parole?

Le raccolse un magistrato, Vittorio Occorsio, che si era occupato di eversione nera. Lo fece fino al 10 luglio 1976, quando fu ucciso da due fascisti di Ordine Nuovo. Un altro delitto nebuloso, ancora ignoti i mandanti, l’ennesimo freno alla definitiva maturazione civile e democratica di un’Italia che avrà un futuro soltanto quando si sarà liberata dai tanti, troppi scheletri del suo passato. Come quello della morte di Mikis Mantakas.


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