Ci lascia a 103 anni Kirk Douglas, l’ultimo dei duri della Hollywood dell’epoca d’oro

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Kirk Douglas, l’ultimo dei duri della Hollywood dell’epoca d’oro, ci ha lasciato ieri all’invidiabile età di 103 anni.

Fisico granitico e carattere ruvido, Issur Danielovitch – questo il suo vero nome – ha saputo affrontare con caparbia fierezza gli ostacoli e le avversità della vita, riuscendo a costruirsi, da vero self made man, una carriera leggendaria.

Nato ad Amsterdam, nello Stato di New York, il 9 dicembre 1916, da una poverissima famiglia di immigrati bielorussi analfabeti (suo padre faceva lo straccivendolo), si mantenne agli studi facendo praticamente di tutto, dal cameriere al lottatore, fino al diploma conseguito all’Accademia di Arti drammatiche di New York. Dopo aver lavorato nei teatri di Broadway, esordì nel cinema grazie a Lauren Bacall, la moglie di Humphrey Bogart, che lo segnalò al produttore de Lo strano amore di Marta Ivers del 1946, film che interpretò accanto a Barbara Stanwyck. Nel frattempo aveva mutato nome: Kirk lo prese in prestito da un personaggio dei fumetti che amava particolarmente, Douglas, invece, era il cognome della sua insegnante di dizione all’Accademia.

Il bruto e la bella

Nel 1947 recitò al fianco di Robert Mitchum in Le catene della colpa di Jacques Tourneur. Partecipò anche a qualche commedia, ma i ruoli brillanti non si addicevano alle sue caratteristiche più inclini a incarnare personaggi duri e spesso non privi di cinismo, come il pugile che impersonò ne Il grande campione, film del 1949 diretto da Mark Robson, che gli attirò l’interesse di pubblico e critica. La consacrazione definitiva arrivò con L’asso nella manica (1951) di Billy Wilder, in cui vestiva i panni di Chuck Tatum, un giornalista privo di scrupoli intento a speculare sul dramma di un minatore rimasto intrappolato dopo il crollo di una miniera. Seguirono i ruoli di poliziotto spietato in Pietà per i giusti (1951) e del crudele produttore cinematografico che tormenta la fragile diva Lana Turner in Il bruto e la bella (1952) di Vincente Minnelli.

Dopo una parentesi italiana nella quale recitò al fianco di Silvana Mangano e Anthony Quinn nell’Ulisse di Mario Camerini, fondò nel 1954 la propria casa di produzione, la Bryna Productions (dal nome di sua madre, Bryna Sanglel), con la quale realizzò i suoi più grandi successi da protagonista.

Nel 1956 vestì i panni del pittore Vincent Van Gogh in Brama di vivere di Vincente Minnelli, che gli fece vincere un Golden Globe come miglior attore in un film drammatico e gli valse la terza nomination all’Oscar come miglior protagonista (le altre due le aveva conquistate nel 1950 per Il grande campione e nel 1953 per Il bruto e la bella).

Al 1957 risale il primo dei due capolavori che realizzò con Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, pellicola antimilitarista alla quale Douglas teneva molto e in cui ha lasciato, come anche nel successivo Spartacus, l’impronta del suo carattere volitivo. Si racconta infatti che Kubrick – il quale pur essendo già al quarto film e godendo dell’apprezzamento della critica, non viveva dei proventi delle sue regie ma dipendeva, nei suoi compensi, dagli incassi al botteghino, peraltro ancora magri – fosse orientato a girare un finale più lieto. Douglas però si impose con fermezza, pretendendo che il finale rimanesse quello malinconico e fraternamente “interrazziale” che tutti conosciamo.

Spartacus

La seconda collaborazione con Kubrick si ebbe nel 1960 per il colossal Spartacus, tratto dall’omonimo romanzo di Howard Fast. Il film, narrante la vita del gladiatore trace che sfidò la Repubblica romana, prese l’avvio sotto la direzione di Anthony Mann il quale fu licenziato alla terza settimana di lavorazione da Douglas in persona, qui nelle vesti di produttore oltre che protagonista, e sostituito da Kubrick col quale, tuttavia, i rapporti sul set furono di amore e odio. Fu Douglas a raccontare che il regista era restio a girare quella che sarebbe divenuta la scena clou del film: il momento in cui tutti gli schiavi, per proteggere il vero Spartaco e condividerne il destino, si alzano in piedi e affermano uno dopo l’altro «Io sono Spartaco!» e che solo la perentoria presa di posizione dell’attore portò Kubrick a cambiare idea. Ma Douglas in quell’occasione fece molto di più. Negli Stati Uniti dell’epoca imperversava il maccartismo, vera e propria caccia alle streghe nei confronti dei comunisti, visti come una minaccia per lo stile di vita americano. Comunisti che secondo il senatore Joseph McCarthy avevano fatto di Hollywood una succursale sovietica. Bastava il minimo sospetto di simpatie “rosse” per rischiare di vedersi mandare all’aria la carriera e finire in carcere. Il sospetto, la delazione, la diffamazione erano stati eletti a fede nazionale. Era questo il contesto in cui Spartacus veniva girato, ma il film contribuì a decretare l’inizio della fine del maccartismo grazie a una scelta coraggiosa di Douglas il quale volle che nei titoli di testa e sui manifesti del film comparisse il vero nome dello sceneggiatore, ossia Dalton Trumbo. Un tempo Trumbo era stato l’autore più richiesto e pagato di Hollywood, ma una volta finito nella lista nera di McCarthy era ufficialmente sparito dalla circolazione, pur continuando ufficiosamente a scrivere copioni (suo era anche quello di Vacanze romane con Gregory Peck e Audrey Hepburn) sotto falso nome. Spartacus era un colossal da 12 milioni di dollari: una cifra da capogiro per l’epoca. Mettere a repentaglio una megaproduzione di quel livello richiedeva non poco sangue freddo, oltre a ciò c’era da considerare l’eventualità che il pubblico boicottasse una pellicola sceneggiata da un comunista e tratta dal romanzo di un altro filosovietico, quell’Howard Fast che da celebre scrittore si era ridotto, dopo la sua iscrizione nella lista nera di McCarthy, a stamparsi Spartacus in cantina perché tutti gli editori si erano rifiutati di pubblicarlo. Douglas era un divo, ma questo non lo metteva al sicuro dal pericolo di sparire per sempre dagli schermi cinematografici. Un atto di eroismo, quello di Douglas, degno del personaggio che aveva appena interpretato e che fu premiato inaspettatamente dal Presidente Kennedy, il quale dopo aver assistito alla proiezione del film fece sapere che gli era piaciuto.

Nel corso della sua lunga carriera Kirk Douglas girò anche diversi film western, tra i quali è bene ricordare almeno Il grande cielo (1952) di Howard Hawks, L’uomo senza paura (1955) di King Vidor e Sfida all’O.K. Corral (1957) di John Sturges, in coppia con Burt Lancaster.

Fra la seconda metà degli anni Cinquanta e tutti gli anni Sessanta prese parte a pellicole di vario genere: il disneyano 20.000 leghe sotto i mari (1954) e I vichinghi (1958), entrambi di Richard Fleischer; Noi due sconosciuti (1960) di Richard Quine; L’occhio caldo del cielo (1961) di Robert Aldrich; Due settimane in un’altra città (1962) di Vincente Minnelli; Solo sotto le stelle (1962) di David Miller; Sette giorni a maggio (1964) di John Frankenheimer; Carovana di fuoco (1967) di Burt Kennedy; La fratellanza (1968) di Martin Ritt e Il compromesso (1969) di Elia Kazan.

Nei due decenni successivi diradò la sua attività cinematografica. Di questo periodo ricordiamo, tra gli altri, Uomini e cobra (1970) di Joseph L. Mankiewicz, Un uomo da rispettare (1972) di Michele Lupo, Fury (1978) di Brian De Palma, Saturno 3 (1980) di Stanley Donen, L’uomo del fiume nevoso (1982) di George Miller e Due tipi incorreggibili (1986) di Jeff Kanew, in cui tornò a recitare accanto a Burt Lancaster.

Complessivamente la sua filmografia annovera oltre settanta pellicole cinematografiche e diverse partecipazioni a film e serie televisive. L’ultima apparizione sul grande schermo fu nel 2004, nel film Illusion diretto da Michael A. Goorjian, mentre l’ultima apparizione televisiva risale a quattro anni dopo.

La sua penultima interpretazione cinematografica, in Vizio di famiglia (2003) di Fred Schepisi, lo vide recitare al fianco del figlio Michael, nei ruoli di padre e figlio.

Il 16 gennaio 1981 il Presidente degli Stati Uniti Jim Carter gli conferì una prestigiosa onorificenza civile, la Medaglia presidenziale della Libertà.

Dopo tre candidature agli Oscar e nessuna vittoria, nel 1996 gli venne assegnato l’Oscar alla Carriera. Nello stesso anno Douglas venne colpito da un ictus che gli tolse la facoltà di parlare e lo costrinse per lungo tempo a seguire due sedute di logopedia a settimana, tuttavia riuscì a riprendersi abbastanza bene. Cinque anni prima era sopravvissuto per miracolo a un incidente di elicottero in cui due suoi compagni di viaggio persero la vita.

Kirk Douglas si sposò due volte: dal primo matrimonio con l’attrice britannica Diana Dill, a cui fu legato dal 1943 al 1951, nacquero Michael (nel ’44) e Joel (nel ’47), il primo attore, il secondo produttore. Dal secondo matrimonio con la produttrice Anne Buydens, conosciuta sul set di Brama di vivere e sua compagna (anch’essa ormai centenaria) fino alla fine, ebbe altri due figli, Peter Vincent (nel 1955) ed Eric (nato nel 1958 e scomparso prematuramente nel 2004 per overdose).

Ritiratosi dalle scene, Douglas si dedicò alla scrittura (spaziando dall’autobiografia alla narrativa), all’attivismo politico, specie attraverso un blog personale, e alla beneficenza. Nel 2015, ad esempio, insieme alla moglie, donò 15 milioni di dollari a una clinica di Los Angeles per ex attori e lavoratori di Hollywood colpiti da Alzheimer.

Liberal convinto e sostenitore del partito democratico, in un’intervista aveva accostato il successo di Trump alle presidenziali all’ascesa di Hitler per i toni violenti e razzisti della sua campagna elettorale.

Di lui rimarrà il ricordo di un uomo dal fisico prestante e dallo sguardo fiero e azzurrissimo, dal sorriso schietto e dall’iconica fossetta sul mento. Ma soprattutto ci ricorderemo di lui per il carisma, il coraggio delle idee e l’integerrima fedeltà a se stesso.


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