Il freddo genera mostri. ‘The Lodge’ di Severin Fiala e Veronika Franz, presentato al Torino Film Festival 2019

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Se inserite tre persone in una casa persa tra le colline di una remota località del Nord America, le riprese sono girate in Quebec, e le isolate dal mondo con una tempesta di neve e se queste persone sono fragili, variamente sofferenti e connesse tra di loro da rapporti non certo banali cosa può accadere? Questo è il plot di The Lodge, thriller psicologico con una inaspettata deriva horror, portato sul grande schermo nei freddi colori di una regia attenta ed efficace da Severin Fiala e Veronika Franz. La trama è piuttosto semplice, Mia e Aiden da poco hanno perso la madre suicida anche a causa dell’abbandono da parte del marito. Il padre Richard, chiede loro o meglio li obbliga a conoscere la nuova e bella fidanzata Grace − interpretata da una bravissima Riley Keough che da sola regge l’intero film − di diversi anni più giovane e traumatizzata da terribili avvenimenti accaduti quando era poco più che una bambina, unica sopravvissuta da un suicidio collettivo nella comunità religiosa che la ospitava.

A tutte le informazioni abbiamo accesso nei primi momenti del film che ci accompagna subito nella casa, il lodge del titolo, dove ognuno dei protagonisti inizia a combattere coi propri mostri, reali e immaginari. E bastano, insieme ad alcune ravvicinate e insinuanti riprese della casa giocattolo dei due bambini – che diviene presto alter ego del luogo reale – fino a confondersi in uno schema sempre più astratto, a insinuare in noi il dubbio che accadrà qualcosa di terribile. Ma ciò che accade non è ciò che ci aspettiamo. Il freddo, quello dell’inverno meno di quello dell’anima, genera quei mostri.

L’oppressione e il terrore indotti da una fuorviante religiosità vengono sottolineati dalla presenza di feticci e simboli: una madonna dipinta, un crocefisso, le bambole con cui gioca insistentemente Mia. La ripetizione esoterica di parole chiave che sono pronunciate o scritte rientra in un modello di reiterazione, uno schema circolare che pare impedire una vera libertà di azione dei personaggi, un vero libero arbitrio. L’orologio che presenta sempre la stessa ora e la stessa data, il tentativo di Grace di raggiungere la città più vicina, e dopo una giornata passata a vagare nella tormenta ritorna disperatamente al punto di partenza – alla casa che si trasforma da ecosistema chiuso a immagine concreta di un purgatorio -, rientrano nel claustrofobico disegno circolare su cui si basa l’intero film. Vagando nei percorsi più oscuri della mente, gli orrori si manifestano dapprima come intrusioni nel reale, invisibili, nelle notti abitate da oscure presenze, quindi sembrano attendere fuori dalle finestre che gettano uno sguardo sull’ignoto mentre attendiamo che dietro i vetri qualcosa, finalmente, come una liberazione, appaia dal bianco della neve. Ogni convinzione cade, persino quella di essere ancora vivi.

Il corpo di Grace, spiato dall’adolescente Aiden mentre la ragazza esce dalla doccia, nuda, diviene luogo della punizione, del delirio autodistruttivo nell’invocazione disperata di una salvezza impossibile, ricercata tra il fuoco che purifica e il ghiaccio che ricopre lo stagno di fronte alla casa. La sua stretta raggelante impedisce il pensiero, obnubila la ragione, fino alle scene finali dove tutto si capovolge e l’inganno dei sensi appare svelato per costringerci a constatare che in fondo nulla è più potente dell’inconscio, nemmeno la morte.


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