Omaggio a Roman Polanski | La lezione del Maestro. Miserie umane e nitore etico in ‘J’accuse’

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L’ “affare Dreyfus” visto non dalla parte del capitano ingiustamente condannato (un ottimo e convincente Louis Garrel), nel 1894, per alto tradimento a dieci anni di reclusione (ne scontò cinque, ottenne la grazia nel settembre 1899, e solo tardivamente, nel luglio del 1906, fu scagionato e riabilitato) sulla sperduta e desolata Isola del Diavolo, nella Guyana francese, ma da chi ha messo a repentaglio la propria carriera e la propria vita affinché tale ingiustizia venisse svelata agli occhi del mondo. J’accuse (questo il titolo originale, che si rifà al celeberrimo editoriale firmato da Émile Zola sull’Aurore, che costò allo scrittore la condanna a un anno di carcere. Il titolo italiano, assai meno incisivo e meno evocativo, L’ufficiale e la spia, si riferisce invece al titolo del romanzo di Robert Harris da cui il film è tratto) racconta infatti il noto caso politico-giudiziario che sconvolse l’opinione pubblica francese di fine Ottocento dal punto di vista di Marie-Georges Picquart, il tenente colonnello che, posto a capo dei servizi segreti militari, diede tutto se stesso per smascherare le menzogne dell’Esercito e le false prove fabbricate in un clima di antisemitismo imperante.

Basandosi sul romanzo di Harris, ma soprattutto sulla Storia, Polanski mette in scena un rigoroso e avvincente thriller politico, un giallo storico minuziosamente ricostruito nei fatti come nelle scenografie e nei costumi (degno di menzione il lavoro della costumista Pascaline Chavanne, più volte nominata al Premio César, vinto poi nel 2014 per i costumi del film Renoir di Gilles Bourds): tutto nel film del regista polacco è improntato al rigore più assoluto.

Non è esagerato parlare di capolavoro per quest’opera magnifica in ogni sua parte, integerrima, potente, disturbante. Come solo la verità sa essere.

Polanski mette a fuoco la miseria umana, la pusillanimità, il marciume serpeggiante nei meandri dell’esercito francese, dal più infimo soldato che dorme sulla scrivania nelle ore di lavoro, alle più alte sfere, corrotte fin nel midollo. Le stanze del palazzo sede dei servizi segreti sono emblematicamente fatiscenti, sporche, polverose, maleodoranti. Una cloaca dove uomini inetti, ripugnantemente grassi e flaccidi, o minati nel corpo e nello spirito da malattie specchio della loro condotta viziosa, riversano tutta la propria piccolezza, la propria meschinità e le proprie frustrazioni nello spiare le vite degli altri, falsificando la verità, rimestando nella melma, orchestrando sotterraneamente e subdolamente la macchina del fango, complottando e mistificando. A guardarli sembrano creature espettorate dal gorgo limaccioso cui loro stesse hanno dato vita: brodo primordiale della loro depravazione, humus in cui si pasce ogni loro più infima abiezione.

Unica eccezione in mezzo a tanta bassezza e tanta lordura, la figura del tenente colonnello Picquart si staglia nitida a incarnare non soltanto l’uomo e il militare integerrimo che non può chiudere gli occhi e mettere a tacere la proprio coscienza di fronte a una palese ingiustizia (da notare che Picquart non nutriva simpatia per gli ebrei, ma non ha permesso che questo offuscasse il suo giudizio), ma anche il paradigma del moderno intellettuale (accomunato in questo allo scrittore Zola), che pur di far luce sulla verità dei fatti non teme di sfidare un Sistema più grande di lui.

L’interpretazione di Jean Dujardin è semplicemente magnifica, una prova d’attore destinata a rimanere impressa in modo indelebile nella memoria dello spettatore. Come incancellabile è la scena iniziale, quella della degradazione, in cui è impossibile non sentire bruciare sulla propria pelle l’umiliazione e l’onta subita da Dreyfus, che tremante, in mezzo allo scherno generale («Ha la faccia di un sarto ebreo che piange per l’oro che ha perduto», commenta un ufficiale, e un altro gli risponde «I Romani davano i Cristiani in pasto ai leoni, noi gli diamo gli ebrei. Abbiamo fatto progressi!»), non smette di gridare la propria innocenza.

Proprio Garrel ha dichiarato di aver avuto modo di incontrare, durante le riprese del film, una discendente di Dreyfus: «Un giorno sul set, prima di recitare una scena, Roman mi ha detto che c’era una ragazza che dovevo conoscere. Si è presentata dicendomi “Buongiorno, sono la pronipote di Alfred Dreyfus.” Incredibile! Tragedia nella tragedia, mi ha raccontato che i nipoti di Dreyfus furono deportati durante la Shoah. L’inferno della famiglia Dreyfus non è mai finito».

La grandezza di Polanski sta nel mostrarci senza la minima retorica i germi dell’antisemitismo che sarebbero deflagrati in maniera catastrofica nel secolo successivo. La sua straordinarietà sta nell’imbastire un affresco storico certosinamente accurato che senza la benché minima forzatura enfatica spinge lo spettatore a riflettere su come l’ingiustizia di cui fu vittima Dreyfus sia un fatto di drammatica e tangibile attualità.

La grande, esemplare, potente lezione di cinema che Polanski ci consegna è quella di un film che senza bisogno di essere ampolloso, prolisso, declamatorio, senza bisogno di null’altro che il suo rigore stilistico e il suo nitore etico, sa dire allo spettatore quanto il regista conosca personalmente determinati meccanismi persecutori e come la storia – lo sottolineava già Margaret Atwood – «non si ripete, ma spesso fa rima con se stessa».

Il sublime talento di Polanski fa di ogni inquadratura un’opera d’arte (non mancano le citazioni di grandi pittori dell’epoca, da Manet a Gauguin), di ogni scena in cui compare Emmanuelle Seigner una commovente dichiarazione d’amore alla donna che è sua compagna di vita, oltre che musa ispiratrice.

Il Gran Premio della Giuria conferito a J’accuse dall’ultima Mostra del Cinema di Venezia, è il tributo doveroso al genio assoluto di Polanski, che ad ottantasei anni continua ad emozionarci come pochi, saggiamente demandando – com’è giusto per un artista – alla propria arte, solo alla propria arte, il compito di parlare per lui.

E l’arte del grande maestro si libra, libera e limpida, anni luce più in alto di questioni, ormai sempre più sterili e vuote, che, a differenza del suo cinema imperituro, non resteranno.


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