Andreatta e Agnelli: il lungo addio

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Beniamino Andreatta e Umberto Agnelli sono stati accomunati dalla vita e dalla morte. La voce del primo si spense, in seguito a un malore, la sera del 15 dicembre 1999: da allora, purtroppo, non si è più ripreso, fino ad andarsene il 26 marzo 2007 all’età di settantotto anni.

Il coraggio del secondo ci abbandonò il 27 maggio 2004, a soli sessantanove anni, al termine di una vita trascorsa, in parte, all’ombra del fratello ma nella quale, tuttavia, si era saputo ritagliare un ruolo di primo piano nel panorama sportivo e politico italiano.

Il dottor Umberto fu, infatti, l’artefice della magna Juve di Charles e Sivori, compiendo, nell’estate del ’57, un miracolo calcistico dai tratti modernissimi, andando a cercare il meglio del meglio in giro per il mondo e conducendo nell’austera Torino una testa matta come l’argentino, di cui presto l’intero popolo bianconero, Agnelli in testa, si sarebbe innamorato.

La politica gli venne incontro nel ’76, l’anno in cui la DC lo candidò a Roma, guarda i casi della vita nella stessa legislatura in cui decise di offrire un’opportunità anche ad Andreatta. Fu allora che i due, insieme a Francesco Merloni, compresero la necessità di avviare un nuovo percorso all’interno dei partiti e del contesto politico in generale. Preoccupati per la brutta piega che stava prendendo il nostro sistema istituzionale, divenuta ancor più tragica dopo il sequestro e il rapimento di Aldo Moro, diedero vita all’Agenzia di Ricerche e Legislazione (AREL), un luogo di pensiero e di analisi, in netto contrasto con quella che Andreatta avrebbe poi definito, con una battutaccia delle sue, l'”anonima partiti”. Del resto, era un personaggio di frontiera, un trentino figlio di un uomo che durante la Prima guerra mondiale aveva rischiato la vita arruolandosi nelle file italiane contro l’esercito austro-ungarico e nella Seconda era stato deportato in Germania in condizioni di schiavitù. Un personaggio che, da ragazzo, aveva partecipato attivamente alla Resistenza come staffetta partigiana, dunque quanto di più distante possa esistere dal correntismo esasperante, dal piccolo cabotaggio e dalle scelte compiute pensando solo all’oggi, senza un minimo di visione e di idea del futuro, proprie di coloro che hanno condotto la politica e il Paese nel baratro attuale.

Nino Andreatta aveva la vocazione del demiurgo, del costruttore di sogni e di idee, la concretezza dell’uomo del fare che, però, a differenza di molti, prima di agire pensava. Per questo si trovò, fin da subito, in sintonia, con uno dei membri più influenti della dinastia che ha motorizzato l’Italia e reso grande una squadra nata su una panchina di Torino ad opera di un gruppo di studenti del liceo D’Azeglio.

Pensiero e azione, analisi e proposta: un lungo, quello di Andreatta e Agnelli. Due decenni e un destino, purtroppo per noi inglorioso.


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