Gabo Márquez e una generazione in rivolta

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Dieci anni senza Gabriel García Márquez e ci pervade un senso di solitudine. Lungo forse non cent’anni, ma comunque straziante, specie se si pensa a ciò che sta accadendo nel mondo, alla fatica esistenziale che ciascuno di noi prova e alla rabbia che pervade le società occidentali, scosse alle fondamenta dall’ondata di repressione che si sta manifestando a ogni latitudine.
In dieci anni è cambiato tutto, e una voce come quella del grande narratore colombiano ci manca più che mai. Ci mancano, infatti, il suo pensiero universale, la sua comprensione dell’animo umano, la sua conoscenza del mondo e anche la sua capacità di capire e dirci molto sull’Europa, benché sudamericano, virtù pressoché scomparsa in un continente in guerra com se stesso. E ci manca, infine, il suo coraggio, lo stesso che lo indusse a compiere scelte difficili, a tratti drammatiche, come ad esempio vivere nella Spagna franchista, ossia sotto una dittatura, per giunta essendo portatore di idee comuniste, per poter scrivere “L’autunno del patriarca”, ossia il romanzo del dittatore che ha colpito e sconvolto il mondo.
Celebriamo, dunque, Gabito con affetto e riconoscenza, nel momento in cui ragazze e ragazzi italiani occupano le università per chiedere la fine degli accordi con gli atenei israeliani come risposta al massacro compiuto a Gaza dal governo Netanyahu: una scelta discutibile, dato che quelli dovrebbero essere i templi del pensiero e dello scambio di idee, proposte e conoscenze, ma non condannabile tout court, specie se ci si mette nei panni di chi non sa più che gesti compiere per farsi ascoltare e per far sentire la propria sacrosanta indignazione per una mattanza che non può e non deve lasciarci indifferenti. Siamo davvero al cospetto della generazione più ignorata della storia, la più inascoltata di sempre, irrisa, denigrata, esclusa da qualunque ruolo di potere, sottopagata e costretta a fuggire da un Paese che la umilia senza garantirle alcun futuro. Nel caso specifico della Palestina, poi, la questione è addirittura peggiore, dato che il mondo dell’istruzione, in particolare nell’ultimo anno, è stato contaminato dal bellicismo dilagante: dai toni assunti a determinate decisioni, fino al partenariato con alcune industrie della difesa che non possono farsi scudo dietro all’ipocrisia dell’innovazione e della collaborazione in nome della crescita e dello sviluppo collettivo. Non è di questo modello di sviluppo, difatti, che avvertiamo il bisogno.
E qui torniamo a Gabito, alla sua arte, al suo realismo magico, alla sua immensità, al suo essere sempre stato una stecca nel coro, al suo essersi ribellato per tutta la vita, al suo non aver mai accettato alcuna impostura, al suo pervicace rifiuto della violenza, alla sua idea in base alla quale la sinistra sia l’unica forma di promozione umana possibile e al suo essersi schierato, il più delle volte, dalla parte del torto, cioè della ragione. Induce a riflettere che il decennale della sua scomparsa coincida con la malora dell’umanità, con la sconfitta di ogni principio, con la disfatta del buonsenso e con un’ondata di ferocia senza precedenti: è come se si stessero materializzando tutti i demoni che ha cercato di esorcizzare nei suoi capolavori. Consigliamo, pertanto, a studenti e studentesse che si incatenano di fronte alle università, chiedendo diritti e dignità per il popolo palestinese, la fine di ogni barbarie e un altro modo di intendere il nostro stare insieme, di leggere e rileggere lo straordinario scrittore di Aracataca. Nelle sue pagine troveranno un mondo, una fonte di ispirazione e una rivoluzione mite eppure efficacissima, che di solito perde ma alla lunga vince, come tutte le idee bellissime che, proprio per questo, faticano ad affermarsi.

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