Una pietas possibile. “Dylda/Beanpole” di Kantemir Balagov al 37. Torino Film Festival

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L’orrore procede al di là della guerra. Sullo sfondo di una Leningrado gelida come il cuore degli uomini e delle donne, “Dylda/Beanpole” di Kantemir Balagov (il regista di “Tesnota”) racconta la straziante e controversa storia di due donne: Iya e Masha. La prima (Viktoria Miroshnichenko domina il suo personaggio con una interpretazione dolente e delicatissima), soprannominata “giraffa” per la sua altezza, esistenza aggraziata e timida, tornata dalla prima linea per un trauma – uno shell-shock, probabilmente – che la immobilizza per brevi istanti, è infermiera in un ospedale nel quale si ammassano i soldati dal fronte: un giovane drappello di scampati al macello che paga la follia della guerra e la propria dedizione, le imprese ardite e ogni eroismo – almeno a sentire la sempre uguale retorica di Stato – con le ferite insanabili del corpo e dell’anima soprattutto.  Lì Iya assolve, suo malgrado, anche ad un compito particolare: è il sensibile angelo della morte per quei reduci ai quali, sotto loro richiesta, somministra un “aiuto” definitivo, con il pietoso avallo dell’ufficiale medico, anche lui segnato dalla assurdità del conflitto e sconvolto dalla perdita dei figli. Già nell’incipit del suo terribile e lancinante affresco, Balagov – premio come miglior regista a Cannes 2019 e premio FIPRESCI nella sezione “Un Certain Regard” – esplora le tematiche di un’opera che si candida meritatamente come miglior film a questo Torino Film Festival 37: l’orrore della guerra, gli strascichi atroci che impone sullo stesso concetto di umanità e su ogni sua declinazione: un abominio che non salva nessuno.

Un’atmosfera di morte fisica ed esistenziale che aleggia costantemente nelle storie irredimibili che il film attraversa con il piglio neorealistico di una “nouvelle histoire” cinematografica, attenta a scrutare nel profondo. Masha (Vasilisa Perelygina maneggia in maniera straordinaria l’euforia della sopravvissuta, la tragedia per la perdita del figlio e il desiderio quasi patologico di una nuova maternità), assai più disinvolta e aggressiva compagna di artiglieria di Iya, è scampata al massacro in nome di un altro tipo di “eroismo” più bieco e non certo meno tremendo: era una “moglie in campo militare” – un eufemismo per prostituta nei postriboli per la truppa – una “funzione di supporto” nel linguaggio asettico che ogni guerra impone, che ha trasformato il suo corpo in un campo di battaglia e che le ha procurato la sterilità a causa di aborti continui. Aveva affidato il suo unico figlio Pashka proprio a Iya la quale, durante una delle sue crisi, lo aveva soffocato involontariamente col corpo. Adesso Masha pretende dall’amica un risarcimento: sarà proprio Iya, recalcitrante, a portare dentro di sé la vita – “qualcosa a cui aggrapparmi” – che lei non può più creare.

In questo universo al femminile a scomparire sotto la potenza espressiva e caratteriale di Iya e Masha è però proprio il mondo degli uomini, costretti a mera carne da macello, ridotti a (improbabili) macchine da riproduzione, incapaci di ridare un senso alla propria vita mutilata – come nel caso del cecchino Stepan – travolti dunque da un déluge senza scampo. “Dylda/Beanpole” racconta il conflitto e le tensioni latenti ed esplosive ad un tempo di queste due donne, i cui caratteri paiono di ascendenza strindberghiana nel loro proiettarsi nella dimensione della figura hegeliana del servo-padrone (così come in altri termini e in diversi contesti aveva fatto il Lanthimos di “The Favourite”). Bagelov le modella non certo lavorando di travisamenti e di doppi, di finzioni e di inganni, ma andando al nocciolo nudo del loro desiderio di autocontrollo e di controllo reciproco, grazie ad una sceneggiatura essenziale (scritta a due mani da Kantemir Balagov e Aleksandr Terekhov) che riserva, nella sua estrema concisione, dolorosi sussulti narrativi.

Secondo il piano ordito da Masha dovrà essere proprio l’ufficiale medico, ricattato, il padre di questo nuovo figlio: la sequenza dell’accoppiamento imposto in cui le donne si abbracciano sembra un’eco de “The Handmaid’s Tale” di Bruce Miller, solo che qui, nella Russia staliniana del 1945, la distopia è realtà e ogni illusione si disgrega: Iya non rimane incinta e Masha si vede pure sfuggire il matrimonio con un rampollo della nomenklatura. In “Dylda/Beanpole” l’impatto brutale con il mondo reale della narrazione è però reso in maniera antifrastica dalla splendida fotografia di Ksenia Sereda che predilige i toni cromatici caldi e luminosi: e sui primi piani delle protagoniste e sui colori vividi degli interni. Sull’orlo di uno sgretolamento definitivo, Iya e Masha rimangono allora aggrappate ad una solitudine quasi insopportabile, appesantita dai sensi di colpa, dalle angosce profonde, dalle speranze infrante. Anche se l’abbraccio che si regalano nelle sequenze finali, schiude lo spiraglio ad una “pietas” che solo due donne abissali come loro sono capaci di fare sbocciare insieme ad una bellezza terribile e commovente.


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